Chissà se il maestro Muti vorrà portare – davanti a Palazzo Chigi – la Messa da Requiem di Verdi, così mirabilmente diretta lo scorso 10 ottobre a Chicago in occasione dell’anniversario dei duecento anni dalla nascita del grande compositore di Busseto. Testo e musica ben si addicono alla imminente morte dell’editoria non profit, cooperativa, locale – circa cento testate, di cui un terzo è già defunta o in agonia – alla cui esistenza dovrebbe contribuire la specifica posta istituita presso la presidenza del consiglio.

Il Fondo fu introdotto e aggiornato da una lunga sequenza normativa (l. 416/1981, l. 67/1987, l. 250 /1990, l. 62/2001, DPR 223/2010, l. 103 /2012), per controbilanciare lo strapotere televisivo e l’iniqua distribuzione della pubblicità. Proprio la l. 103/2012, ora in vigore, vincola i finanziamenti ai contratti di lavoro a tempo indeterminato e alla diffusione effettiva.

Sempre in attesa della tanto agognata riforma del sistema, di cui c’è bisogno come il pane: in un’Italia scivolata al 49° posto della classifica per la libertà di informazione e retta (si fa per dire) da una normativa figlia dell’era dei grandi gruppi e del conflitto di interessi.

Ricapitoliamo gli eventi.

Il Fondo è passato da 506 milioni di euro del 2007 agli attuali 55,9: cifra calcolata al netto delle spese «fisse», che curiosamente premono sulla stessa voce (rimborso a Poste Italiane, convenzioni della Rai, e così via). In verità, ecco il fulmine a ciel sereno (?) della improvvisa incertezza sulla sorte del già insufficiente capitolo di bilancio. «Chi l’ha visto?», cantava Gaber, ironizzando con simpatia sulla storica trasmissione della terza rete della Rai.

Appunto, chi l’ha visto il Fondo, visto che se ne sono perse le tracce. Il sottosegretario con delega all’editoria Lotti sembrerebbe preoccupato.

E ne ha motivo, visto che la fine di un così rilevante numero di testate sarebbe un unicum nella storia nazionale: neppure con il fascismo era successo qualcosa di simile.

Ma non finisce qui. Il delitto diviene perfetto con il capitolo 2183, Tabella C della Legge di stabilità 2015, in discussione in questi giorni alla camera. I virtuali 98,5 milioni stanziati –tolte le solite spese «fisse» – spingono il contributo editoria sotto lo zero.

C’è sempre una prima volta, incredibilmente. Quindi? Libri in tribunale, per non rischiare persino involontari falsi in bilancio. E sì, perché il taglio arriva alla fine dell’anno, a resoconti stilati ed approvati. È un’improvvida e grave deriva, che si collega alla complessiva riduzione della spesa per la cultura, la scuola, l’università, la ricerca, i saperi.

Meglio cittadini poco informati? Il sospetto non è infondato e, se ci si sta sbagliando, ben venga.

Come ha denunciato la Federazione della stampa in una bella iniziativa promossa insieme a «Stand Up for Journalism» sul lavoro, nel 2013 altri 800 giornalisti hanno perso il posto. Inoltre, si parla della scomparsa di una trentina di fogli locali, per non parlare dell’emittenza.

Attenzione, qui parliamo della parte nota ed «emersa», da moltiplicare se volgiamo lo sguardo all’inferno del precariato. Ai nuovi servi della gleba.

Eppure, lo stile del governo Renzi potrebbe apparire conversativo e pieno di promesse: in verità la pratica reale è drammatica. «E così, con un bacio, io muoio», esclamava morendo Romeo, nella famosa tragedia shakespeariana. E nell’altra, non meno celebre, l’ombra di Banco – però – perseguita Macbeth.

Il Parlamento tace? Intanto, si apra una stagione di lotta, perché il silenzio non paga mai.