Edith Wharton apparteneva a una generazione di mezzo, fra lasciti di una cultura di tipo vittoriano e modernità delle avanguardie, di lì a esplodere. Era figlia dell’aristocrazia newyorchese, e fin dall’infanzia passò lunghi soggiorni in Europa, attraversò l’Atlantico una sessantina di volte, per stabilirsi infine nei pressi di Parigi. Viaggiatrice instancabile – anche alla guida della sua automobile, con accanto ospiti illustri fra cui Henry James – da espatriata guardava alla «old New York» elitaria e conservatrice, e alle sue ipocrisie con distacco e ironia.

Accade a New York
Per altro verso, un matrimonio insoddisfacente, la separazione, altri legami, il divorzio, furono quanto ci voleva per plasmare le sue eroine: quelle ritratte in La seconda occasione (cura e postfazione di Sabrina Campolongo, anche traduttrice insieme a Daniela Magnoni e Rossella Venturi, Paginauno, p. 146, € 12,00) sono tormentate e un po’ filosofe come lei stessa, in cerca di quella «pienezza di vita» cui aspira la protagonista dell’ultimo racconto, dove Wharton si spinge oltre il reale e mette la sua alter ego in un eccentrico aldilà a disquisire con compiacenti maschi ultraterreni sui pro e i contro di una vita eterna alternativa a quella vissuta.

La «natura di una donna è come una grande casa piena di stanze»: c’è l’atrio, il salotto, il soggiorno, ma «più in là, molto più in là ci sono altre stanze e le maniglie di quelle porte non vengono mai girate, nessuno sa come vi si acceda, nessuno sa dove conducono»: così la protagonista di «Pienezza di vita», un racconto di questa raccolta, che riassume ciò che spinge tante memorabili figure femminili di questa scrittrice a infrangere i dogmi sociali in cui si trovano intricate, nel bel mondo della New York fra Ottocento e Novecento.

Dalla Contessa Olenska, immortalata da Michelle Pfeiffer in L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, alle protagoniste di queste tre short stories, le donne di Wharton si misurano con la forza delle convenzioni che bloccano i desideri individuali; e l’ambivalente complessità del loro ragionare è quanto affascina l’autrice, mandando avanti la macchina romanzesca.

Duelli verbali
Nel primo racconto, «Autre temps», la signora Lidcote, esule volontaria in Europa, torna a mostrarsi all’intera «tribù della vecchia New York», che anni prima l’aveva ripudiata per aver scelto di svincolarsi da un matrimonio mal riuscito. Ma i tempi sono ‘altri’ appunto, e tutto sembra «a posto» nel nuovo schema delle cose. O almeno così le dicono la figlia, che ha fatto la sua stessa scelta, una stordita cugina, l’uomo che la corteggia, il chiacchericcio nei salotti della buona società.

Quasi una figura pirandelliana, la signora Lidcote, prigioniera del passato, guarda scettica alla «moderna fluidità dei costumi» e al suo corteggiatore, comprimario sordo e conformista, contrapponendo la sua integrità morale alle contraddizioni della vecchia e della nuova New York.

Anche Lydia in «Anime in ritardo», si lancia in un duello verbale con Ralph Gannett, l’uomo per cui ha lasciato il marito. Li incontriamo all’inizio del racconto su un treno che da Bologna li porta in un hotel alla moda in Svizzera, dove Lydia tenta di spiegare a Gannett cosa significhi per lei aver varcato la soglia della loro «piccola cerchia di pregiudizi», cosa davvero sia la libertà.

«Prova a metterti nei panni di una donna!» dice a Gannett, che fatica a seguire la sua fervida mente, le sue teorie sul matrimonio e quel chiedere così tanto alla vita «in modi così complessi e immateriali».
Il coraggio di mettersi a rischio sia sul piano morale che su quello emotivo, la difesa delle proprie scelte anticonformiste e l’integrità di pensiero uniscono le protagoniste di questi racconti, dove si conferma una scrittrice che, sebbene avesse in antipatia suffragette e femminismo, non si limita all’impietosa e raffinata rappresentazione delle élite internazionali, ma si affaccia alla modernità tramite i suoi grandi ritratti di signore che si sottraggono al potere delle convenzioni.