Il pane perduto, l’ultimo libro di Edith Bruck (La nave di Teseo, pp. 128, euro 16), offre pagine di intensità struggente, di una lingua piegata alle vite vissute, scritture plurali nel tempo e nello spazio eppure straordinaria espressione di una vita unica, sofferta e vivida. Un regalo doloroso e commovente come la vita di cui racconta: non un libro sui campi di sterminio, un libro sulla vita. Anche se comincia con «tanto tempo fa» non è una favola quella delle pagine d’inizio: «c’era una bambina che, al sole della primavera, con le sue treccine bionde sballonzolanti correva scalza nella polvere tiepida. Nel villaggio dove abitava, che si chiamava Sei Case, c’era chi la salutava e chi no». Essere ebrei ed essere poveri era il motivo di quei mancati saluti ma il racconto di quel periodo si tinge di una vaga serenità.

Nata in un povero villaggio dell’Ungheria, ultima di sei figli «vivi» Bruck con un solo aggettivo apre uno spiraglio su un mondo di miseria dove i figli si nutrono a storie perché non c’è cibo da mettere in tavola. Storie di «una terra del latte e del miele» raccontata dalla madre, terra che darà pane e dignità in un futuro che è invece travolto dalle croci frecciate, delle leggi antiebraiche, dalle deportazioni e dai campi di sterminio. Gli ungheresi furono gli ultimi ebrei d’Europa ad essere deportati nei campi nazisti.

È SOLO QUANDO RACCONTA della salita sul treno che la porterà con la famiglia nel ghetto che il racconto si muta alla prima persona. Lasciato Sei Case il libro abbandona infatti l’esordio favolistico e Bruck scrive una lingua precisa di fatti, emozioni, paure. Della vita che l’ha resa testimone della Shoah Edith Bruck ha raccontato in molti altri libri destinati ad adulti ed anche ad un pubblico giovane ma queste pagine sono diverse: sono un bilancio, una tessitura di vita che dal villaggio Sei Case l’ha condotta ad oggi, novantenne esile e determinata, nel centro di Roma.

Prima però ci sono stati i campi di sterminio e la «marcia della morte», sempre accanto – salvifica – la sorella Judit: «La marcia infinita continuava e anche la semina dei cadaveri. Dalle finestre, anche se aprivano, non cadeva più la manna. Gli abitanti, appena ci vedevano, fuggivano come fossimo appestate. Non restava che nutrirci di rifiuti, bucce avare di patate, foglie e torsoli di cavoli, scorze degli alberi». Con parole piane, paradossalmente misurate, Bruck ricorda a questo occidente obeso e goloso il significato della parola fame. E, dopo i campi di sterminio, racconta il lungo «dopo» di una vita intera.

L’incerto ritorno, la cauta ripresa di peso, gli incontri sulla via del ritorno in un continente distrutto dalla guerra e attraversato da centinaia di migliaia di persone che cercavano un luogo dove tornare o da cui scappare per non tornarvi mai più. Budapest «città ovunque ferita, ovunque macerie, grigiore, distruzione anche umana: negozi vuoti, tristezza, teste basse, corpi rattrappiti e volti chiusi». L’accoglienza della sorella Miriam: «Niente pianti! Niente parole! Avanti!». Un imperativo violento in cui si sono imbattuti tanti reduci dai campi. «Cosa stava succedendo? – scrive Bruck riportando un dialogo muto con la sorella Judit – Il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse». «Ma in che mondo siamo tornate? – riprende poche pagine più avanti – Perché abbiamo lottato tanto per la nostra sopravvivenza? Perché? Perché?».

EPPURE VINCE l’ingiunzione al silenzio che è durata decenni. In Italia, tra i primi a romperlo, è stato Primo Levi: lui ha parlato e scritto per tutti, «fratelli e sorelle di lager» dicevano loro e dice lei. Poi lui se ne è andato e molti di loro si sono fatti carico del dovere e del dolore del racconto.

Gonfia di parole e «scomoda nella propria pelle» Bruck raddoppia il proprio peso, da quaranta a quasi ottanta chili, e racconta il tentativo di tornare nel villaggio trovando la propria casetta vandalizzata dai vicini in segno di spregio, le foto di famiglia raccolte «tra il letame che debordava nella stalla vicina». E allora che la scrittura si impone «per necessità, per respirare». La scrittura la accompagna nel viaggio attraverso l’Europa fino a Marsiglia – «dove ho visto per la prima volta il mare» – lì si imbarca per Israele nelle settimane di poco successive all’indipendenza. Arrivata lì la realtà si impone oltre i racconti materni di una terra del latte e del miele. Torna a scrivere «più di prima, le parole da dire stanno aumentando, se fossero bambini concepiti ne partorirei tanti quanti ne sono stati annientati». La consapevolezza, oltre l’amore e il matrimonio: «Forse è colpa mia, non mi trovo più bene da nessuna parte, non mi piace il mondo e non posso cambiarlo».

IL RIFIUTO di prendere le armi in un paese in guerra dove doveva nascere «l’ebreo nuovo» che non doveva strisciare sui muri dei ghetti ma che a Edith Bruck non piace – poi la scelta di andarsene in una compagnia di danzatori: Atene, Istambul, Zurigo e poi l’approdo, in Italia, a Napoli: a insegnarle a contare, mentre ballano, è Ugo Tognazzi. L’arrivo a Roma, «la città mi parve maestosa». Il primo lavoro come direttrice di un istituto di bellezza a via dei Condotti, la scrittura relegata ad occupazione domenicale ma presenza comunque costante e compagna. Poi l’incontro con Nelo Risi – poeta e regista – compagno di una vita (il matrimonio è celebrato da Francesco Fausto Nitti, fondatore di Giustizia e Libertà): «Sessanta anni di gioia, di passione, di sofferenza, di tenerezza, di pazienza, dolore, amandoci in salute e malattia fino al suo ultimo fiato tra le mie braccia». A lui, alla loro storia, alla convivenza con l’Alzheimer che lo ha colpito Bruck ha dedicato La rondine sul termosifone, edito anch’esso da La nave di Teseo (2017).

POI LA CONSULENZA con Gillo Pontecorvo per Kapò, le altre collaborazioni con il cinema e i giornali, la scrittura per il teatro e la regia. La scrittura continua ad esserle compagna costante ed è sempre in italiano, lingua di accoglienza e di distanza necessaria per poter raccontare la Shoah. Una famiglia sparsa per il mondo tra Israele, Argentina e Brooklyn, affetti e generazioni che tessono e riempiono la vita. «Da figlia adottiva dell’Italia, che mi ha dato molto di più del pane quotidiano, e non posso che essergliene grata, oggi sono molto turbata per il Paese e per l’Europa, dove soffia un vento inquinato da nuovi fascismi, razzismi, nazionalismi, antisemitismi, che io sento doppiamente: piante velenose che non sono mai state sradicate e buttano nuovi rami, foglie che il popolo imboccato mangia, ascoltando le voci grosse nel suo nome, affamato com’è di identità forte, urlata, e italianità pura, bianca; che tristezza, che pericolo».

Anche per questo racconto dell’oggi Il pane perduto non è un libro sulla Shoah, è un libro che racconta cosa era un angolo di Europa prima della guerra e dello sterminio e cosa sia diventata oggi. È un libro che racconta una vita e che si conclude con una lettera scritta finalmente a Dio dopo averla solo pensata per una vita intera: «Forse mi urge mettere sulle pagine ciò che ho accumulato nella mente perché il destino mi sta privando della vista… il tempo stringe. Sto constatando che ogni parola e ogni riga tende verso l’alto sempre di più e chi può sapere se non arrivi fino a Te, sempre che tu ci sia… a te ho pensato ogni sera della mia vita. Ti interrogavo su tante cose ma non ho mai udito la Tua voce». Al Creatore Edith Bruck, chiede tempo: ha ancora da dire, da scrivere, da testimoniare.

Errata Corrige

Per uno spiacevole errore, nella versione originale dell’articolo era stato dimenticato il credit della foto, che è di Michele Corleone. Ci scusiamo con lui e con i lettori.