Siamo tutti consapevoli che una legge finanziaria per sostenere la crescita si scontra con le condizioni di finanza pubblica e con le politiche di austerità dell’UE. Eppure in queste ore, dove si vanno individuando le priorità, è sempre più evidente il nesso che potrebbe e dovrebbe esserci tra interventi sul sistema pensionistico, riqualificazione e rilancio di settori strategici. L’edilizia è da questo punto di vista un settore chiave.

Abbiamo alcune migliaia di operai edili, spesso con carriere previdenziali discontinue, che con oltre 60 anni, sono obbligati ancora a salire sulle impalcature o spostare  carichi pesanti: i nostri dati sono impietosi, un infortunio mortale su 4 riguarda proprio questa fascia di età. Noi l’abbiamo chiamata “la strage dei nonni”.
Al contempo il settore necessita di una scossa non solo in termini di aumento della domanda interna (quindi più infrastrutture, implementazione della positiva politica dei bonus per la riqualificazione energetica e sismica), ma anche e soprattutto di qualità (rigenerazione urbana, risparmio energetico, nuovi materiali, messa in sicurezza anti sismica e idrogeologica) che necessitano di nuove professionalità, di centinaia di giovani tecnici che siano in grado di promuovere concretamente questo rilancio. Se Casa Italia sarà una scelta strategica vera  agirà positivamente su questa domanda, ma dovremo poi darle le gambe su cui “correre”.

E allora il tema di favorire concretamente un ricambio generazionale nel nostro settore non risponde solo ad una domanda di maggiore giustizia, ma potrà essere la premessa per dare a migliaia di giovani un’occasione concreta di lavoro, per poter contribuire realmente a costruire (nel senso letterale del termine) l’Italia del futuro.

Per queste ragioni sottolineo alcuni aspetti, forti di dati e ricerche che forse non tutti hanno guardato in queste ore: un operaio edile nato tra il 1951 e il 1953 ha mediamente una carriera previdenziale con molti buchi (hanno iniziato giovani, ma quasi tutti a nero; in edilizia si lavora principalmente in primavera ed in estate), sono quasi tutti inquadrati tra il 2° e 3° livello (con un reddito intorno ai 1400 euro netti). Con gli attuali paletti di 30 anni di contributi se disoccupato, 35/ 36 se in attività, e con una soglia di accesso di 1350 euro lordi, rischiamo che alla fine ci si rivolga solo a poche centinaia di persone. Per questo, pur con limiti e criticità, la proposta che anche il Governo aveva all’inizio avanzato dei 20 anni come requisito minimo e dei 1500 euro lordi, aveva colto una platea di evidente interesse.

Oggi non vogliamo arrenderci all’idea di dover solo prendere atto che, per poche decine di milioni di euro, si sono scelte altre priorità,  a ciò che serve anche per introdurre innovazione e capacità si sia preferito il “gettone” della ricerca del consenso spicciolo (altro che innovazione), senza assumersi la responsabilità di scegliere.  Insomma, alla fine, quando i singoli andranno a fare i conti, si accorgeranno che non avranno beneficiato per nulla di queste scelte e che dovranno rimanere sulle impalcature ancora per anni. E ancora per anni, i nostri giovani cercheranno altrove ciò che il paese non è in grado di offrire loro.

*Segretario Fillea-Cgil