Sarà ospite domani della Milanesiana, allo Spazio Oberdan di Milano, il grande regista tedesco Edgar Reitz, per presentare Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht. Il film, quattro ore di pura vertigine, uno dei più belli degli ultimi anni, sarà proiettato alle 15 – introducono Alberto Pezzotta e Enrico Ghezzi – mentre Reitz sarà presente alle 21 per i corti Velocità (1963) e Cardillac (1969).

Presentato in prima mondiale alla scorsa Mostra di Venezia e ancora senza distribuzione italiana, Die andere Heimat è una sorta di prologo alla trilogia di Heimat. Siamo sempre nell’immaginario villaggio di Schabbach nell’Hunsrück da cui partivano i protagonisti degli episodi successivi. È la metà dell ‘800 e al centro del racconto ci sono i fratelli Jakob e Gustav: uno legge e fantastica di mondi lontani e grandi viaggi, l’altro è pragmatico ma gli eventi lo travolgono.

«Non avrei potuto immaginare questo film senza aver realizzato gli altri Heimat. D’altra parte non volevo fare un prequel alla trilogia e Die andere Heimat può essere visto anche senza conoscere gli altri. Una cosa importante è che questo è fatto per il grande schermo, mentre le serie erano destinate alla televisione. È un pubblico diverso» spiega Reitz che abbiamo incontrato in aprile Abbiamo incontrato il regista in aprile, a Locarno, dove era ospite di L’immagine e la parola, l’iniziativa primaverile del Festival.

Che effetto le fa sapere che «Heimat» ha segnato molti spettatori?

Mi sorprende ancora quando le persone si ricordano le immagini dei miei film, o mi dicono che hanno avuto influenza sulla loro vita. Oggi milioni di immagini assillano l’uomo, sono felice se qualcuno ricorda le mie. Per me il cinema è forse l’arte che più arriva nel profondo, nell’anima delle persone. È ancora l’arte più importante di questi tempi, perché riunisce le altre. Le immagini non sono in grado di raccontare le storie, non hanno una logica temporale, le parole lo fanno meglio. Ma trovare il modo di raccontare la nostra vita con le immagini va oltre quel che è possibile fare con la letteratura, mette in moto la capacità intellettuale e anche la fantasia. D’altra parte, i film non sono una macchina del tempo, bisogna essere concreti. Un testo letterario è più libero. Anche se parlo di una bacinella, al cinema devo farla vedere. E questo complica tutto.

Questo film è in bianco e nero con inserti a colori, come la quasi magica comparsa dei fiori di lino nel campo.

Per anni ho cercato di realizzare un mix di bianco e nero e colore e non ci riuscivo. Oggi con il digitale si può fare molto di più, la tecnologia allarga le possibilità d’espressione. Tanti colleghi sono critici sul digitale, ma il cinema come forma artistica è figlio della sua epoca. Il bianco e nero di Die andere Heimat è diverso dal passato: l’ho fatto in post-produzione con mio nipote che ha 22 anni e ho potuto lavorare su ogni sfumatura dell’immagine. In questo film era importante anche il meteo, le nuvole, la luce. Pensavamo sempre a come era il cielo.

Avendo dovuto abbandonare i componenti della famiglia Simon della trilogia, non sarà stato facile trovare gli attori.

Il cast è stato difficile soprattutto per i ruoli degli anziani. Oggi le persone si nutrono meglio di allora e con attori sovrappeso non puoi fare un film che parla di fame. Con i giovani c’è il problema che sono una gioventù del lusso, hanno tutto, hanno conosciuto tutto e glielo leggi in faccia. Ho fatto casting per un anno, ho visto 800 ragazzi per il ruolo principale di Jakob e con 20 di loro ho fatto riprese di prova. Alla fine ho scelto Jan Dieter Schneider, che non si era presentato ai provini ma ci seguiva dalla parte opposta della strada mentre provavamo. Aveva cercato di entrare in una scuola di recitazione ma non l’avevano preso, così aveva ripegato su medicina come volevano i suoi genitori. Quando ha indossato il costume per la prova non ci credevamo: era molto più bravo degli altri. La fortuna del film dipendeva tutta da quel ragazzo: ha fatto un corso di recitazione intensivo di quattro mesi. Un’altra difficoltà è stato il dialetto. Per imparare come si parla dell’Hunsrück abbiamo sistemato tutti gli attori per tre mesi a vivere nelle famiglie del luogo e hanno imparato le loro parti con gli abitanti della zona.

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Avete girato in un villaggio reale? Come avete ricostruito gli ambienti?

Per scenografia e costumi è stato ancora più difficile. Non c’era nulla, abbiamo dovuto ricostruire tutto, il villaggio, i costumi, gli utensili. La vita dei poveri del passato è scomparsa, non c’è più nulla, neanche nei libri; mentre i castelli e le ville sono rimasti e della vita dei ricchi qualcosa è rimasto. Abbiamo lavorato alle case con gli attrezzi che c’erano allora, con una probabilità di veridicità: le case potevano essere nel modo in cui appaiono nel film.

È vero che ha fatto indossare anche la biancheria intima com’era allora?

Il mio lavoro con gli attori inizia sempre dai costumi. Non è sufficiente che il costume sia d’epoca, ho bisogno la storia del costume. Con gli attori per settimane cerco la storia del vestito, della scarpa, anche di quel che portano sotto. L’intimo è importante, influenza pure il modo di camminare. Se sotto il costume storico s’indossa biancheria moderna, si cammina in modo moderno.

Poi ci sono il cameo di Werner Herzog e il suo. Com’è nata l’idea?

Che Von Humboldt andando da Berlino a Parigi passasse dal villaggio era già un’idea osé. Mi sono chiesto quale attore potesse interpretarlo e mi è venuto in mente che Werner è un Humboldt moderno, che ha sempre cercato l’Eldorado ed è stato ovunque a girare i suoi film. Gli ho chiesto se aveva voglia di farlo e mi ha risposto che Von Humboldt era il suo ideale e che l’avrebbe fatto a una condizione: che recitassi anch’io.

In questo momento i tedeschi sono mal visti, sono accusati dal resto d’Europa di essere ricchi ed egoisti. Con il suo film sembra voler ricordare loro che in passato sono stati poveri. È così?

È un’idea un po’ collaterale però è corretta. Lavorando al film mi rendevo conto che era importante aprire gli occhi dei tedeschi. Potevo farlo solo mostrandogli il loro passato. Le persone oggi si occupano solo di sé stesse, il trucco è farli guardare nella loro storia passata per farli rendere conto delle storie degli altri. Se camminiamo nelle città vediamo tante persone che hanno negli occhi la sofferenza per aver dovuto lasciare la loro patria.