Forse la società polacca è pronta finalmente a discutere il concetto di sesso culturale. Il linguaggio artistico contemporaneo offre la possibilità di farlo tenendo a bada ogni accademismo o strumentalizzazione politica. Dopotutto, studi di genere e arte contemporanea sono accomunati dal fatto di essere per vocazione campi multidisicplinari. La mostra «Gender in Art» organizzata al MOCAK di Cracovia, aperta fino al prossimo 26 settembre, mette il paese davanti ad uno specchio. Questa volta potrebbe essere quella giusta dopo la collettiva «Gender Check», curata dalla serba Bojana Pejić che era passata in sordina cinque anni fa per Varsavia alla Galleria Zachęta. Da quel momento sono cambiate tante cose. Nel 2012 il «Kinsey polacco» Zbigniew Izdebski ha pubblicato uno studio dai cui risultati si evince che i suoi connazionali, pur essendo poco esigenti, sembrano soddisfatti della propria sessualità nel ventunesimo secolo. Intanto, gli attacchi da parte di chiesa, politici teocon e berretti di mohair nei confronti di alcuni «classici» della sztuka krytyczna (critica d’arte) degli anni novanta hanno ripreso vigore. Ma sono state proprio le loro proprie crociate che hanno permesso alla parola «gender» di uscire dal ghetto del gergo accademico.
La popolazione urbana più liberale è rimasta impermeabile ai sermo generalis dei moralisti ma anche, in modo forse compaciuto, alle implicazioni che il concetto di gender comporta a livello sociale. La mostra – curata a sei mani da Delfina Jałowik, Monika Kozioł e la direttrice del MOCAK Maria Anna Potocka – permette di misurare la distanza tra gli artisti e una parte della società. Per molti cittadini infatti la separazione totale dei ruoli di maschio e femmina resta inattaccabile mentre l’universo LGBT è irrimediabilmente unheimlich (raccapricciante).
I tempi per parlare di sessualità culturale in Polonia sono maturi, o quasi, secondo la Potocka che spiega: «Attualmente siamo in una fase di gender post-religioso, il cui scopo è quello di condurre le persone a riscoprire insieme la propria umanità». Un dibattito al quale una buona fetta della società polacca e la chiesa, vuoi anche per mancanza di strumenti metodologici, non vogliono e non possono affrontare. Una copia del dipinto L’origine del mondo (1866) di Courbet autorizzata dal Museo di Orsay sancisce il trionfo vaginocentrico dell’esposizione dove invece la raffigurazione fallica ha la peggio.
La mostra cracoviana è aperta dal servizio di piatti di ceramica realizzati dall’americana Judy Chicago, disposti a triangolo invertito, nella celebre installazione The Dinner Party (1979). Un progetto riproposto al MOCAK in formato da parete che potrebbe rientrare nel catalogo degli esempi di arte relazionale ante litteram secondo il canone di Nicolas Bourriaud. Tanti classici della performance art più militante con l’obiettivo dichiarato di storicizzare e divulgare: dalla Semiotica della cucina (1975) di Marta Rosler, passando per Valie Export e altri «quasi classici» come Vanessa Beecroft.
Il video della performance di Andrea Fraser intitolata Men on the Line: Men Committed to Feminism, KPFK, 1972 (2012), sospesa tra rivendicazione militante e spinte egualitariste, si offre come anello di congiunzione per comprendere anche l’altro polo concettuale della mostra. L’artista americana riproduce con precisione attoriale i discorsi di alcuni sostenitori della causa femminista tratti da una storica emissione radiofonica soltanto per svelarne la retorica paternalistica.
Spazio dunque all’utopia dell’eguaglianza sessuale con la sequenza di schiaffi bipartisan tra Marina Abramovic e Ulay in Light/Dark (1977) e le asce di Piotr Blamowski che richiamano all’evirazione rituale praticata un tempo dalla setta cristiana ortodossa degli skopcy in Russia. Neutralizzare la differenza sessuale di genere resta comunque un’impresa impossibile anche provando a rimescolare le carte. Nel filmato Turbulent (1998) dell’iraniana Shirin Neshat due cantanti di sesso opposto hanno entrambi la possibilità di esibirsi su un palco ma con esiti estetici diametralmente opposti. Sullo stesso tono una splendida fotografia di Andrzej Rzepecki che lo ritrae nel gesto materno di allattare un bambino forse un modo per ricordarci la crudeltà delle differenze biologiche.
Un cartello indica che le opere esposte al MOCAK possono urtare la sensibilità del pubblico più giovane per caratteristiche sessualmente esplicite. Strano a dirsi ma l’avvertimento è utilizzato soltanto all’ingresso di una delle sale del percorso espositivo. L’interno del gabinetto segreto offre un campione dell’arte di Natalia LL, splendida meteora dell’arte performativa polacca negli Anni Settanta, ma anche un poster di Dorota Nieznalska. In My Life My Decision (2005), il filo spinato che avvolge la pancia di una donna, rimanda alla simbologia di Auschwitz in modo latente quasi beuysiano.
Immancabile la presenza degli esponenti dell’arte critica polacca degli Anni novanta con il video Cheerleader (2006) di Katarzyna Kozyra o i giocattoli sessualizzati ideati da Zbigniew Libera per You Can Shave The Baby (1995). Due dipinti di Edward Dwurnik realizzati negli ottanta ritraggono Krysztof Penderecki e Lech Walesa ognuno in braccio alla propria metà: un invito a riconoscere e a riscoprire il ruole delle donne in tempi non sospetti quando l’emorragia delle biografie delle mogli illustri non aveva ancora inondato il mercato letterario locale.
Ma a sorprendere di più è la forza educativa e la lucidità nelle opere delle nuove leve dell’arte polacca. Nel video Patchwork Families (2015) Małgorzata Markiewicz mostra diverse «configurazioni» di gruppi familiari, utilizzando un set di bambole di pezza realizzate dall’artista stessa. Segno che la nuova generazione di artisti ha un approccio meno militante e più pragmatico alla sessualità culturale.