È una piazza senza un centro vero, quella delle sardine a San Giovanni, con un piccolo palco montato dagli organizzatori e un impianto di amplificazione che non è in grado di arrivare oltre le prime file, generando un senso di spaesamento. In piazza una massa enorme di gente, come non se ne vedeva da tempo, che non cerca punti di riferimento e forme di organizzazione immediata, ma esprime quasi un senso liberatorio dopo anni di disillusione: vogliono semplicemente far sentire la loro presenza, bilanciare quella strabordante di Matteo Salvini e dei suoi epigoni. Sono adulti più che giovanissimi, più romani (a occhio non delle estreme periferie) che persone venute da fuori.

«Chiediamo che i politici non ci trattino da deficienti» dice ad esempio un signore che porta il cartello «Più sardine meno pecore». Un altro lo dice ancora più chiaramente: «Chi sta qua chiede un riferimento politico, aspetta che qualcuno ascolti questa voce». La domanda dunque è proprio fino a che punto questa gente aspetterà. O se invece tenterà di organizzarsi in altri modi per colmare il vuoto che sente attorno.

PER ORIENTARSI si possono usare i cartelli, il cui ritorno in chiave postmoderna è la novità degli ultimi tempi. Dal momento in cui i social ci hanno reso tutti possibili immagini iconiche, sempre più persone si portano dietro il loro slogan. Sono manifesti all’antica, sorretti da un palo di scopa con le scritte a stampatello. Allora il cronista si mette a inseguire la ragazza che porta la scritta «L’unico fascista buono è il fascista fritto» e si ritrova in mezzo a un gruppo di attivisti della rete Restiamo umani, che un mese fa ha manifestato per chiedere l’abrogazione dei decreti sicurezza. Adesso cantano, sulle note del fischio del Robin Hood di Walt Disney: «Per Minniti e Salvini siamo tutti clandestini, ma la loro sicurezza è inaccettabile».

DENTRO QUESTA PIAZZA, liquida ed ecumenica, il tema dell’antirazzismo è presente perché in fondo marca la differenza culturale e antropologica con Salvini. Le sardine tarantine, ad esempio, espongono accanto a un lungo striscione il libro di Carola Rackete. E i dati di Franco, venditore ambulante di t-shirt che si è posizionato al centro della piazza, parlano meglio di qualsiasi analisi politica. «A ogni manifestazione scelgo le magliette da portare in base al tipo di persone che ci saranno – dice – E stai sicuro, questo non è il genere di piazza in cui porto le magliette con la falce e martello o Che Guevara». Indica la mercanzia mentre una giovanissima compra la maglietta rossa con slogan «Antifascista sempre». Ma rivela: «Ho finito la t-shirt con il mondo e la scritta ’Nessuno è straniero’».

In questo senso ci si trova davanti a un movimento civico, dal momento in cui la guerra dei razzisti è guerra contro le città e una parte dei loro abitanti. Fende la folla un passeggino seguito da una famiglia multietnica. Se chiedi al babbo da dove provengono, lui – afrodiscendente – dice di chiederlo alla bimbetta che apre il piccolo spezzone, coi capelli da rasta. E lei risponde semplicemente: «Da Roma!».

I GIOVANI NON SONO MOLTI, dicevamo, ma è impossibile non pensare ai salti generazionali e alle piazze che hanno segnato conflitti, entusiasmi e sconfitte. Nove anni fa, era il 14 dicembre del 2010, Roma venne attraversata da una grande manifestazione di studenti che cercavano di assediare il senato che votava la fiducia al governo Berlusconi sulla riforma Gelmini. Quel corteo culminò con duri scontri a piazza del Popolo e il muro di gomma della politica contro il quale si scontrò quella generazione ha costituito le condizioni per la situazione in cui ci troviamo oggi. Nel giro di un paio di anni, successe anche qui a San Giovanni, le piazze risuonarono col coro «Onestà», che ha accompagnato la rapida ascesa al governo del Movimento 5 Stelle. La piazza di oggi invece intona «Libertà», ed è parola che ancora una volta assume significati diversi a seconda del contesto, che la cantino le sardine che difendono il diritto a migrare o quelle che portano il cartello (eredità di una mobilitazione grillina) «Renzusconi andrete tutti a casa».

Al terzo punto programmatico delle sardine, il portavoce bolognese Mattia Santori parla di «trasparenza» a proposto dell’«uso che la politica fa dei social network». Il tema riguarda anche questa piazza, visto che qualcuno rivendica la libera partecipazione contro il decisionismo degli amministratori dei gruppi social.

Questo rapporto tra de-centralizzazione («Chiunque può essere una sardina», è il mood che viene dal gruppo emiliano che ha generato il fenomeno) e centralizzazione via Facebook è uno dei nodi fondamentali, di cui si discuterà nella riunione a porte chiuse tra sardine, delegati di gruppi locali e spesso personaggi autonominatisi portavoce. L’incontro viene ospitato da Spintime Lab, palazzo occupato a due passi da San Giovanni. Sarebbero state direttamente le sardine bolognesi a contattare gli occupanti, e in un contesto così ecumenico, così volutamente neutro rispetto alle geografie delle sinistre e di quello che rimane dei movimenti, la cosa è già di per sé una notizia.

LA MANIFESTAZIONE finisce presto, la gente inizia a sciamare all’imbrunire. Molti si muovono verso le luci della via Appia, per lo shopping natalizio. Un padre con adesivo al bavero «Diamoci all’ittica» propone ai figli di andare a visitare l’albero di natale a piazza Venezia, il simbolo di una capitale malmessa che è diventato la mascotte della giunta Raggi: «Andiamo a vedere Spelacchio?».