Malgrado il terremoto d’aprile (500 morti e oltre 2.500 feriti, la peggior tragedia in 67 anni), l’Ecuador non si è dato per vinto. Nonostante sia un paese piccolo, con i governi di Rafael Correa è diventato un punto di riferimento autorevole sia sul piano regionale che internazionale nel proporre un’idea di sviluppo coniugata alla giustizia sociale. Quattro anni fa, ha accolto nella sua ambasciata a Londra il giornalista ricercato dagli Usa, Julian Assange, il fondatore di Wikileaks, lanciando un preciso messaggio a Washington. Quest’anno ha accolto il vertice della Celac, la Comunità degli stati latinoamerican e caraibici che lascia fuori solo Usa e Canada. Ospita la sede della Unasur, dedicata alla memoria dell’ex presidente argentino Nestor Kirchner. E ha fatto sentire la sua voce all’Osa in difesa della sovranità del continente dalle ingerenze esterne.

Il ministro degli Esteri e per la Mobilità umana, Guillaume Long – storico e accademico – ha sostenuto recentemente la battaglia del Venezuela bolivariano contro gli attacchi delle destre, e il dialogo sotto l’egida della Unasur. In quel contesto lo abbiamo incontrato a Caracas e siamo tornati a trovarlo a Roma, nella sede dell’ambasciata, per il lancio della campagna internazionale contro i paradisi fiscali.

Qual è il motivo di questo viaggio?
Una breve visita in Vaticano, per incontrare il segretario di Stato Pietro Parolin. A lui ho consegnato una lettera di Rafael Correa, il nostro presidente, sulla nuova iniziativa internazionale che stiamo lanciando per abolire i paradisi fiscali. Un Patto etico che sottoporremo a referendum a febbraio del 2017, in concomitanza con le prossime elezioni. Il presidente ha spiegato al paese di cosa si tratti e ha illustrato la proposta: calcoliamo che il 30% del nostro Prodotto interno lordo si trovi all’estero in paesi compiacenti in cui è possibile evadere le tasse. Una cifra importante che potrebbe servire alla ricostruzione post terremoto, a far fronte ai piani sociali compensando la caduta del prezzo del petrolio. Come hanno evidenziato i Panama Papers, il problema colpisce i paesi del sud, ma anche il primo mondo. I paradisi fiscali sono un attentato alla sovranità economica delle nostre nazioni, sono la faccia invisibile e più vergognosa del capitalismo moderno, quello senza nome. Appena avremo il parere della Corte costituzionale, porteremo la discussione all’Assemblea generale dell’Onu, a settembre. Poi, inizieremo la campagna per il referendum. Se vincerà il sì, la normativa vigente verrà adeguata al volere del popolo ecuadoriano: tutti coloro che aspirano a ricoprire incarichi pubblici avranno un anno per riportare nel paese i fondi all’estero, dopodiché verranno interdetti da incarichi pubblici.

E cosa vi aspettate dal Vaticano che, in questo ambito ha già le sue gatte da pelare?
Questo è un tema che sta a cuore a Papa Francesco. Il presidente ha già avuto diverse discussioni con la chiesa e con il pontefice. Quando è stato invitato a partecipare alle discussioni sull’Enciclica Laudato si’, il tema dei conti off shore che debilitano i paesi in via di sviluppo è emerso con forza. Gli stati del sud vengono considerati instabili o poco affidabili anche perché i grandi evasori li dissanguano portandosi i soldi all’estero. Sulla questione della finanza etica e della giustizia tributaria molte ong e organizzazioni della società civile hanno già proposte avanzate, dobbiamo lavorare insieme. Anche gli stati del G77 possono fare molto. La chiesa ha una grande capacità di penetrazione ideologica e ora che c’è questa nuova leadership dobbiamo approfittarne per far passare questo messaggio. Quando ha visitato l’Ecuador, Papa Francesco ha detto che bisogna umanizzare il capitalismo, che non si può vivere in un sistema con simili contraddizioni. Il presidente Correa ha una grande stima e ammirazione per Sua Santità.

Un tema che incontrerà forti resistenze in America latina. Nei Panama Papers è emerso il nome del presidente argentino Mauricio Macri, quello dell’ex presidente della Camera brasiliana Eduardo Cunha, di esponenti delle destre venezuelane, peruviane, colombiane… Non pensa che, con il ritorno delle forze conservatrici, i rapporti siano ormai troppo sfavorevoli nel continente?

La battaglia è aperta. Io non credo, però, alla tesi della fine del ciclo progressista, inaugurato dai governi che hanno vinto le elezioni all’inizio del secolo. Non credo che torneremo agli anni ’90: prima di tutto per i grandi progressi ottenuti in termine di riduzione della povertà, delle disuguaglianze, nella costruzione di infrastruttura. Smontare tutto questo, per le destre, implicherebbe assumersi un alto livello di conflittualità sociale. Inoltre, pur con tutte le differenze di accenti, è la prima volta che ci sono stati 12 governi progressisti nella regione. Prima c’era solo Cuba, poi è arrivato il Venezuela, l’Argentina, il Brasile, la Bolivia, l’Ecuador, il Nicaragua… Ora Cuba c’è sempre, ma non è più sola. Quando sei solo, è più facile attaccarti, quando hai degli alleati è più difficile organizzare il solito golpe. Oggi abbiamo sinistre che contano e, anche se perdono le elezioni lo fanno per pochi punti, ma hanno già dato prova di saper governare, e potranno tornare dopo aver imparato dai propri errori.

Questa vostra campagna è anche una mossa elettorale contro l’avanzata dell’opposizione? Una certa sinistra accusa Correa di aver tradito le origini della revolucion ciudadana.

Quando ero giovane, se le sinistre riuscivano a unirsi, arrivavano al massimo al 5%. Abbiamo ereditato uno stato quasi fallito. Tra il ’96 e il 2006 sono caduti 7 presidenti. Ci siamo trovati di fronte un paese fallito, con gravi problemi di istituzionalità, perdita sociale di autostima, abbiamo avuto una forte ondata di emigrati. Correa ha chiamato a una rifondazione attraverso un processo costituente per stabilire un nuovo patto sociale. Per vincere abbiamo dovuto formare un’alleanza più ampia unita da una piattaforma comune, Alianza pais: un fronte unito di 8 formazioni di centro-sinistra che va dal Partito comunista ai socialisti, ad altri più moderati. Abbiamo fondato un partito dall’alto, dal governo: che per questo non poteva essere un partito di quadri perché non aveva i piedi ben piantati nel ’900, non aveva una storia di resistenza alle torture, doveva essere un partito di massa. Abbiamo ridotto l’indice di disuguaglianza da 54 a 47, ma questo è ancora niente su scala generale. Abbiamo però dimostrato di saper governare, perché oggi si sta meglio che sotto i governi precedenti. C’è una leva di quadri politici molto giovani, provenienti dai settori popolari, che sono stati nel governo con un’alta professionalità. Abbiamo sventato un colpo di stato, subito la costante aggressione mediatica. Abbiamo recuperato lo stato nazione, creato alcune condizioni di modernità, ma siamo ancora lontani dal socialismo. Se però mi chiedi se siamo socialisti, io per me rispondo di sì: anche se ritengo che non dobbiamo ripetere gli errori del passato, cadere in un socialismo grigio e omologante, mascolino, caudillista che cancella le differenze. Siamo un paese plurinazionale. Da questo punto di vista possiamo rivolgere una forte critica al capitalismo che livella e appiattisce, impone gli stessi modelli di consumo, la stessa narrazione ingannevole. A volte, però, il vortice dell’impegno quotidiano ti assorbe, si tende a trascurare la base del partito, svuotandolo dei suoi migliori quadri per l’attività di governo. E’ un errore a cui si deve porre rimedio con il ritorno a un’etica che neutralizzi le spinte clientelari. Abbiamo sempre saputo che l’esercizio di governo logora, e che bisogna mantenere vivi i principi e l’impegno. Le destre, tuttavia, non hanno peso e credibilità per costituire un’alternativa.

Ma avete perso pezzi importanti del movimento indigeno, che oggi vi contesta.
Quello della Conaie è un tema complesso e indica il problema a cui accennavo prima: lo svuotamento dei quadri politici formati a un’indigenismo più materialista e la sopravvivenza di una leadership più clientelare, che rappresenta una fazione più fondamentalista, anche molto vincolata a ong europee e a finanziamenti poco trasparenti provenienti da fuori. E’ lo stesso problema che si trova ad affrontare Evo Morales in Bolivia. In ogni caso, si tratta di settori molto marginali che non riscuotono consenso nel paese.

Lei è anche ministro per la Mobilità umana. Quali sono i suoi compiti?
La nostra costituzione contempla la cittadinanza universale: abbiamo un indice basso di richiesta di visti, la maggior quantità di rifugiati dell’America latina: oltre 60.000, la maggioranza sono colombiani fuggiti alle persecuzioni dei paramilitari e alla guerra. Abbiamo un’agenda progressista per aiutare i nostri migranti all’estero che hanno lasciato il paese quando la situazione economica era drammatica. Oggi, si trovano in difficoltà per via della crisi economica che attraversa i paesi del primo mondo: in Spagna, in Italia. I nostri consolati accompagnano le comunità nella difesa dei loro diritti, e li aiutano a tornare a casa dove usufruiscono dei loro pieni diritti.

Di recente, Correa ha detto che il Brexit colpirebbe anche l’economia dell’Ecuador. Perché?
Lo ha detto guardando alla situazione dell’economia globale e all’andamento dei mercati, che si ripercuote sul dollaro e anche sulla nostra economia che purtroppo è ancora dollarizzata, e sulle economie vicine come quella colombiana, la cui moneta ha subito una fortissima svalutazione. Il Brexit ci intristisce perché mostra i limiti del progetto di Unione europea. Il grande limite dell’America latina è di non aver saputo sviluppare per tempo una vera integrazione.