Il recente G20 di Shanghai fotografa l’impasse in cui versa il sistema economico globale. Fa capolino nelle riflessioni dei «grandi» la consapevolezza che la politica monetaria espansiva di questi anni non ottenga i risultati attesi. Una sproporzione eccessiva tra denaro impiegato e benefici.

Ciononostante in Europa si attende un potenziamento del Quantitative easing e, a livello globale, sembra aprirsi una stagione in cui verranno generalizzati tassi negativi per il denaro.

Tuttavia dall’assise cinese emerge che tutto ciò non basta. Prova ne è il perdurare di un contesto deflazionistico diffuso. Le scelte di inondare di liquidità il sistema devono essere accompagnate da una qualche politica economica. E qui tornano come un assioma le richieste di «riforme strutturali» per stabilizzare la crescita, altrimenti il rischio è quello di tornare indietro.

Si può parlare di assioma in quanto queste famigerate riforme costituiscono, nel solco della tradizione scolastica, valore di verità evidenti di per sé, senza la necessità di essere validate dall’esperienza. Sono almeno due decenni che nei paesi occidentali si fanno «riforme strutturali», dalle privatizzazioni alla destrutturazione del mercato del lavoro, con il risultato più significativo di un macroscopico passaggio di ricchezza tra classi sociali. Ma ogni volta appare scontata la necessità di ulteriori dosi di queste «riforme». Come all’ultimo G20.

Ormai la semplice invocazione assume un valore rituale, persino esoterico o cabalistico. Non si ha neppure la premura di spiegarle ormai, fanno da sostrato a qualsiasi discorso economico.

Il loro sbocco sarebbe il ritorno in qualche misura all’economia reale, la creazione di un ambiente in grado di attrarre investimenti, rilanciare produzioni e consumi, far ripartire la competitività delle imprese. Le stesse politiche monetarie dovrebbero tornare a essere funzionali a tale prospettiva.

Tutto ciò mentre la rilocalizzazione industriale di cui gli Stati Uniti sono stati apripista mostra tutti i suoi limiti. A gennaio la produzione industriale negli Usa è aumentata di un modesto 0,5%, ma è caduta negli ultimi sei mesi ben quattro volte, mentre l’indice manifatturiero PMI, il quale misura gli andamenti del settore, registra una contrazione da ottobre. Le cose non vanno meglio alla seconda potenza mondiale, prima in termini di produzione industriale, la Cina.

[do action=”citazione”]Il surplus cinese nell’acciaio equivale all’intera produzione di Giappone, Usa e Germania[/do]

L’Economist, questa settimana, parla della «marcia degli zombie» dell’industria cinese, che registra un’eccesso di capacità produttiva che danneggia l’intera sua economia. Per averne una semplice idea basta pensare che il surplus di capacità produttiva supera nel mercato dell’acciaio l’intera produzione di Giappone, Stati Uniti e Germania.

Ancora l’Economist afferma che «di industria in industria, dalla carta alle navi, al vetro, il quadro non cambia: la Cina ora è molto oltre le forniture richieste dalla domanda internazionale. Eppure l’espansione continua ancora: la capacità cinese di fusione dell’alluminio è destinata ad aumentare per i prossimi dieci anni».

Persino l’importante attitudine a innovare, ad aumentare l’efficienza, a qualificare la manodopera, non fa i conti con un’economia globale imballata, in crisi di sovraproduzione.

Si può sempre pensare che il manifatturiero sia un comparto in via di estinzione, che l’economia del futuro si baserà sull’immateriale, ma per il momento quest’ultima non traina adeguatamente società intere e complesse come quelle attuali, anzi persino Silicon Valley stenta con l’occupazione.

E poi risulta difficile ipotizzare la rimozione di un sostrato materiale della stessa economia immateriale. La «distruzione creatrice» dell’economia di mercato per ora sembra riuscire a distruggere piuttosto che creare.