Cinquanta miliardi di dollari solo di danni alle esportazioni: è la stima dell’agenzia delle Nazioni unite che si occupa di commercio e sviluppo, Unctad, su quanto ci costerà la diffusione della Covid-19 nel 2020 per l’interruzione dei flussi di produzione nelle catene del valore globali, altamente dipendenti dagli input cinesi.

Uno shock che, sommato al malfunzionamento della globalizzazione dalla crisi del 2008, secondo le stime appena pubblicate dall’agenzia, porterà a un danno nell’export Ue da 15,6 miliardi e per gli Usa da 5,8 miliardi. Unctad parla di recessione e di schiacciamento della crescita globale sotto il 2,5%.

«Già a settembre tenevamo d’occhio con ansia l’orizzonte alla ricerca di possibili shock, date le fragilità finanziarie mai affrontate dalla crisi del 2008 e la persistente debolezza della domanda – spiega presentando i nuovi dati Richard Kozul-Wright, direttore del dipartimento Globalizzazione e sviluppo – È arrivato all’improvviso, ma la storia più grande da raccontare è un decennio di debiti, illusioni e deriva politica».

Le indicazioni sono molto specifiche: «Le banche centrali non sono in grado di risolvere da sole questa crisi e un’adeguata risposta politica macroeconomica avrà bisogno di una spesa fiscale aggressiva con significativi investimenti pubblici, anche nella sanità, e di un sostegno assistenziale mirato per i lavoratori, le imprese e le comunità colpite».

Isabelle Durant, vice segretaria generale di Unctad, avverte che «business as usual non è più una scelta possibile – sottolinea – C’è bisogno di un modello economico e commerciale aperto più diversificato in termini di produzione e con catene del valore più corte. E di integrazione regionale», aggiunge, sottolineando che «il coronavirus espone con chiarezza i rischi associati all’elevata dipendenza e concentrazione del commercio, quando i cambiamenti climatici avevano già iniziato a modificare il comportamento di produttori e consumatori. Questi fenomeni possono aprire la strada a un ripensamento generale e all’elaborazione di modelli più sostenibili certamente importanti anche per il Green Deal europeo».

Se gli esperti prescrivono, e non da ieri, più diversificazione e sostenibilità, non è questa la direzione imboccata dall’Unione europea, nonostante l’emergenza. La presidente della Commissione Ursula von der Leyen, fattasi eleggere promettendo una svolta verde, ha annunciato che «spera entro il mese» di chiudere il nuovo Ttip per liberalizzare il commercio Usa-Ue che, a quanto si apprende e si temeva, lascia intatti i dazi ma limita i meccanismi di sicurezza alimentare e sanitaria europei per facilitare l’ingresso delle merci statunitensi. Più ogm e standard meno stringenti nei nostri paesi, hanno spiegato i negoziatori alla stampa a Bruxelles, come stanno proponendo nelle stesse ore all’Organizzazione mondiale del commercio Usa, Canada e Brasile.

Preparando la conferenza ministeriale che si terrà a giugno in Kazakhstan i tre paesi chiedono all’Europa e tutti i membri della Wto di rifiutare «l’applicazione di misure di sicurezza sanitaria e fitosanitaria che provochino una limitazione eccessiva negli scambi», di «introdurre un approccio più basato sulla scienza nella gestione delle emergenze» e di «facilitare un’intensificazione della produzione agricola e del commercio internazionale».

Tutti gli argomenti con i quali da decenni gli Stati uniti attaccano l’approccio europeo al rischio basato sul Principio di precauzione. Però il ministro della salute Roberto Speranza, fin dalla prima dichiarazione dello stato d’emergenza da Covid-19 in Italia ha citato l’immediata reazione nazionale di stop a viaggi e scambi, ispirata dal Principio di precauzione, come essenziale per la limitazione del contagio.

Spetta al governo Conte, alle parti sociali e alla società civile far imparare a Bruxelles la lezione italiana, o come nelle più prevedibili parabole della shock economy si risponderà al problema, la fragilità sociale e ambientale globale, con una tra le peggiori cause: l’ennesima, incontrollata, liberalizzazione.