Yuval Carmi si augura di poter tornare presto a sfamare la sua famiglia. Quando avverrà nessuno può dirlo. In ogni caso le sue parole e la sua immagine rimarranno scolpite nelle cronache dell’emergenza coronavirus in Israele. La disperazione mostrata domenica da Carmi, proprietario ad Ashdod di un chiosco di falafel, davanti alle telecamere della tv Canale 13, ha commosso mezzo paese. E forse ha dato la spinta definitiva al premier di destra Benyamin Netanyahu e il leader del partito Blu e Bianco, Benny Gantz, verso l’accordo per il nuovo governo.

Centinaia di migliaia di israeliani, come Carmi, sono rimasti senza lavoro e reddito a causa dello stop a buona parte delle attività economiche deciso del governo per contenere il contagio. Pagano il costo più alto i privati, in particolare quelli del turismo, della ristorazione, gli albergatori. Da qualche giorno però la chiusura è meno rigida.  Una parte dell’economia è già ripartita tra gli applausi di imprenditori, opinionisti e alcuni ministri che chiedevano di ridimensionare gli ammonimenti di scienziati e medici.

Yuval Carmi, intervistato da Canale 13

I numeri decrescenti del contagio (ora intorno ai 14mila), dei pazienti in terapia intensiva (poco più di 100) e la relativa bassa mortalità (meno di 200 decessi), hanno influenzato sul passo fatto dal governo di allentare il lockdown.

A Netanyahu, che resterà primo ministro per i prossimi 18 mesi, non manca l’intuito. Ha compreso che occorre riporre nell’armadio l’abito del padre della patria preoccupato della salute degli israeliani. Ora deve indossare quello del premier che rimette in marcia l’economia nazionale che lui stesso, quando era ministro delle finanze più di 10 anni fa, ha contribuito a trasformare profondamente abbattendo l’edificio del welfare. Mai come in questi giorni appaiono visibili le direttrici liberiste imposte da Netanyahu e dai suoi successori.

Secondo dati diffusi a inizio settimana, 1 milione e 93mila israeliani non hanno un lavoro e la disoccupazione ha toccato il 26%: a inizio anno era al 4%. In poche settimane le fasce sociali più deboli hanno bruciato tutto i risparmi. «Se domandassimo agli israeliani se dispongono di almeno 400 dollari per fare fronte a una spesa improvvisa, penso che il 10-15% degli intervistati risponderebbe di no. E tanti altri non posseggono molto di più di quella somma di denaro. La mancanza di liquidità in questo momento è il problema più urgente per molte famiglie israeliane», ci dice Momi Dahan, economista e docente all’Università ebraica. A sentire la crisi, aggiunge, è anche la “start up economy”, fiore all’occhiello di Israele.

Tel Aviv in questi giorni (foto Globes)

La “fase 2” perciò è già cominciata. Ritorneranno subito al lavoro il 30% degli impiegati e potranno riaprire librerie, negozi di elettronica, ottica e forniture per ufficio. Altre restrizioni saranno revocate nei prossimi giorni. Sulle decisioni di Netanyahu, economiche e politiche, hanno inciso le previsioni del Fondo monetario internazionale, più cupe rispetto a quelle della Banca di Israele.

L’FMI vede l’economia israeliana contrarsi quest’anno del 6,3%, non in grado di recuperare il terreno perduto fino al 2022 e con il 12% di disoccupazione e un’inflazione negativa dell’1,9% nel 2020. Per il rilancio occorrerebbe una riapertura immediata e completa ma è impensabile mentre il ministro della sanità avverte che una nuova ondata di contagi potrebbe verificarsi già a maggio se non saranno rispettati l’isolamento e il distanziamento sociale.

Pesa la povertà preesistente al Covid-19, figlia anche del liberismo e tra le più alte (1/4 delle famiglie) tra i paesi dell’orbita occidentale. Si concentra soprattutto tra gli ebrei religiosi ortodossi e nella minoranza palestinese (20% della popolazione) discriminata e destinataria di una quota inferiore di risorse pubbliche rispetto alla maggioranza ebraica.

«I tanti israeliani ai margini del mercato del lavoro non avranno alcun beneficio dal piano (di aiuti governativi)» spiegava l’analista Noga Dagan-Buzaglo il 6 aprile sul giornale economico Globes «mi riferisco a persone che ricevono assegni di vecchiaia o di invalidità, che vivono in alloggi pubblici con affitti agevolati e a chi fa lavori temporanei, senza busta paga, e non avrà diritto all’indennità di disoccupazione. Il pacchetto di aiuti non è sostenuto da un budget adeguato». In assenza di una risposta concreta, prevede Dagan-Buzaglo, «nel day after forse saranno già tornati al lavoro tanti ora disoccupati ma ci ritroveremo con più poveri e una povertà più profonda».