E’ il 1816 e William Hazlitt si chiede da che parte stia Shakespeare. Nella tragedia di Coriolano Shakespeare critica sia la folla che l’aristocrazia ma Hazlitt osserva che il giudizio negativo sugli aristocratici è meno marcato. Forse c’era un po’ di disprezzo per le sue origini umili, pensa Hazlitt. O forse, si tratta di un aspetto fondamentale dell’arte drammatica; il teatro infatti presenta una simpatia più pronunciata per i re che per il popolo comune: ‘il linguaggio della poesia si schiera con il linguaggio del potere’. Hazlitt – un radicale – vorrebbe che le cose fossero diverse: «il nostro amore per il potere ci rende tiranni, l’ammirazione per il potere degli altri ci rende schiavi». Lo stesso accade nel cinema. Forse non con i re – ad eccezione del cinema britannico che propone pezzi di propaganda polverosa come Il Discorso del Re – ma sicuramente con le loro controparti attuali: i capitalisti, i banchieri, i finanzieri, quelli che Tom Wolfe ha denominato ‘i padroni dell’universo’. In seguito alla crisi del 2007 – la peggiore dai tempi della Grande Depressione – sono usciti due film, il documentario di Michael Moore Capitalism: Una storia d’ amore (2009) e Wall Street 2 (2010) di Oliver Stone. Il dramma di Stone segna chiaramente la strada che Hollywood poi prenderà nel trattare questo tema. Michael Douglas nei panni di Gordon Gekko è un banchiere riformato, critico del capitalismo del mercato libero, almeno per la prima metà del film ma appena gli si presenta l’occasione torna a rubare. La vittima più palese della crisi è un vecchio bancario (Frank Langella) che si butta sotto un treno. Il numero di suicidi aumentò notevolmente ma nella vita reale si trattava di giovani greci e non di vecchi bancari. Il telefilm Too Big to Fail (2011) di Curtis Hanson si concentra su Hank Paulson, il segretario al Tesoro e artefice del sistema che causò il crollo dei mercati. Tuttavia non è un film di denuncia. Anzi, William Hurt con il suo ‘star power’ svela Paulson non come un incompentente ma come uomo di principi che nei momenti più stressanti soffre ma non si arrende. Immaginate il Titanic di Cameron ma al posto di Kate e Leo troviamo come protagonista il capitano, un maverick che lascia le scialuppe di salvataggio a casa per rendere più veloce la sua nave. O ancora La Caduta di Oliver Hirschbiegel. Tutti sanno che Hitler non era uno dei buoni, ma nel film appare come un povero vecchio che comanda eserciti inesistenti. Patetico si avvicina pericolosamente a simpatico. Raccontare il cinema della crisi è come narrare l’olocausto solo dal punto di vista del ‘buon tedesco’. James Berardinelli ha scritto di Margin Call di J.C. Chandor che ‘sorprendentemente, non è severo’, ma ciò non dovrebbe sorprendere, vista la tendenza. E con Wolf of Wall Street e ora La Grande Scommessa, il tono apologetico diventa celebrativo. Non è poi così strano che l’ultimo film sia stato girato da Adam McKay, regista di commedie. La satira esasperata è diretta al sistema sotto accusa ma anche al pubblico stesso. La spiegazione di un tecnicismo oscuro e noioso viene lasciata a una Margot Robbie, nuda nella vasca da bagno come per dire che questo è l’unico modo per catturare la nostra attenzione. Ridiamo ma ridiamo della nostra leggerezza, della nostra invidia. Alla fine del film il collasso delle banche diventa una vittoria per i nostri eroi che vengono applauditi. Non è più il capitano del Titanic ad essere glorificato ma l’iceberg!