Da quando con l’articolo 15 del Trattato di Lisbona è stata istituita la carica di presidente del Consiglio europeo – adesso il conservatore polacco Donald Tusk, successore di Herman van Rompuy – il ruolo della presidenza dell’Ue a rotazione (ogni sei mesi) da parte di un paese membro ha perso un po’ dello smalto che questa funzione aveva avuto dal ’75 al 2009. A Matteo Renzi è quindi rimasto più un ruolo formale che sostanziale, concentrato soprattutto sull’organizzazione dei lavori, sulla continuità dell’agenda comunitaria. Più formale che sostanziale è così anche il segno che i sei mesi di presidenza italiana lasciano a Bruxelles. I discorsi di Renzi di fronte al Parlamento europeo, quello di inaugurazione del semestre e quello di chiusura (che sarà a gennaio) sono di fatto maggiormente rivolti a fini di politica interna che degli atti incisivi sul corso degli affari comunitari.

Renzi era atteso, era ancora una novità in Europa sei mesi fa. Adesso la sua stella si è appannata anche a Bruxelles. Oggettivamente, il semestre italiano, con i mesi sonnacchiosi delle lunghe vacanze estive e l’elezione della nuova Commissione, approvata ad ottobre dall’Europarlamento, è passato in fretta. Renzi può vantarsi di aver piazzato Federica Mogherini a un posto di grande visibilità, anche se Mrs.Pesc ha un potere relativo, in un campo dove i singoli stati, soprattutto quelli più potenti, continuano a conservare il loro dominio riservato (e l’appello a una posizione comune verso l’India, in seguito al caso dei marò rischia di rimanere inascoltato, per esempio la Francia sta cercando di vendere dei Rafale a New Delhi).

L’Italia avrebbe potuto imporre una svolta alla politica economica? Di fatto, c’è stata una piccola inflessione delle regole del rigore, ma è mancata la costruzione di un’offensiva mirata, che avrebbe potuto coordinarsi con gli altri paesi in difficoltà, a cominciare dalla Francia. Certo, Hollande e Renzi hanno evitato le sanzioni immediate per gli sforamenti delle regole del Fiscal Compact. A Brisbane, ai margini del G20 di metà novembre, c’è stato un incontro molto teso con Jean-Claude Juncker. I due paesi hanno ottenuto tre mesi di tempo in più prima del verdetto. Ma Roma e Parigi divergono persino sull’interpretazione del piano Juncker: l’Italia ha fretta, la Francia vuole vederci più chiaro, in sintonia con la Germania.

Renzi ha accusato Bruxelles di essere in mano ai burocrati. Juncker lo ha un po’ seguito su questa strada, proponendo, con il vice-presidente Timmermans, di sforbiciare una buona parte dei testi di legge in corso, perché bloccati: 83 progetti di regolamenti o direttive, ereditati dalla Commissione Barroso, sono stati ritirati. La semplificazione ha la sua faccia nascosta, aprendo la possibilità agli stati che rifiutano certe decisioni di giocare la carta della procastinazione, per arrivare ad insabbiare definitivamente i testi che non piacciono. È stato il caso di due testi relativi alla difesa dell’ambiente: è sotto presidenza italiana, malgrado la lettera a Juncker firmata da 11 ministri dell’ambiente, che è arrivata la rinuncia a rivedere i tetti nazionali sulle emissioni di Co2 e che è stato bloccato il testo sull’economia circolare (riciclaggio sistematico, con l’obiettivo di ridurre del 30% i rifiuti). Questo è il risultato dell’opera delle lobbies industriali, a cui la presidenza italiana sembra sia stata sensibile. La stessa cosa è accaduta nel campo delle telecomunicazioni, con un compromesso favorevole agli operatori che mette in pericolo la neutralità del web. È questo il segno della marcia senza intralci verso il trattato transatlantico Ttip con gli Stati Uniti, ed è quello che è accaduto con il trattato pilota già firmato con il Canada.

Renzi inoltre aveva chiesto ai partner di condividere il fardello delle migrazioni, ma anche in questo settore gli egoismi nazionali hanno avuto la meglio e per i migranti c’è stato solo un peggioramento: da Mare Nostrum a Triton, che è solo un programma di respingimenti e non di accoglienza.