L’individualismo è il motore della Rete. Ma è un individualismo particolare, perché fa leva sulle connessioni e sulle relazioni sociali a cui partecipa, riconoscendo che è la dimensione sociale il suo brodo di coltura. Non è certo la prima volta che la network culture segnala in questo ossimoro – l’individuo sociale, direbbe Karl Marx – la chiave di volta per svelare uno degli arcani della diffusione del world wide web, diventata una sorta di seconda natura dove uomini e donne lavorano, amano, costruiscono amicizie. Ad affermarlo è Howard Rheingold, studioso di Internet che ha mandato alle stampe il libro Perché la Rete ci rende intelligenti (tradotto Stefania Garassini per Raffaello Cortina, pp. 416, euro 28). Un saggio che ha uno dei punti forza nel porre come dirimente l’analisi di come l’uso intensivo di Internet stia modificando la mente umana. Per Rheingold, la Rete non ci rende stupidi, bensì potenzia le facoltà cognitive del cervello. Semmai, serve una decalogo di tecniche e precauzioni per affrontare quella sindrome dell’attenzione, che fa si che il cervello non riesca ad affrontare il flusso continuo di informazioni, video e immagini che attraversa la Rete. Ed è da qui che parte l’intervista che segue.

Nel suo libro scrive che sempre più persone sono «always on», cioè sono sempre connesse alla Rete. Quali sono le conseguenze di questa inedita condizione umana?

Se lei ha più di quarant’anni, si ricorderà i giorni nei quali digitava il comando per connettere il suo computer alla Rete. Lo facevamo e iniziava l’attesa della connessione, che spesso «cadeva». Essere sempre connessi significa invece che i tuoi strumenti tecnologici – computer, laptop, smartphone – sono sempre agganciati alla Rete. È questo un cambiamento tecnologico che ha aperto la strada a un profondo cambiamento sociale, tanto da essere portati a pensare che tutte le risorse, i contenuti prodotti sono immediatamente disponibili su Internet. La prima conseguenza dell’always on è che gli animali umani hanno esteso le loro potenzialità cognitive in un modo incomparabile rispetto al passato, quando la penna e la carta consentivano di fare calcoli anche complessi attraverso procedure e regole aritmetiche precedentemente apprese. Con il computer in rete tutto questo può avvenire in maniera sorprendentemente più veloce. Se invece spostiamo l’attenzione su altri fenomeni – l’eliminazione della poliomelite, la reazione agli effetti di un disastro che ha coinvolto milioni di persone – possiamo constatare che gli umani operano in maniera più veloce che in passato. Ovviamente, ci sono effetti collaterali negativi di questa accelerazione delle azioni umane. La Rete, infatti, può essere usata per pianificare un attentato terroristico.

Un altro aspetto che emerge dall’essere always on riguarda la disuguaglianza tra i sapienti e gli «ignoranti». Con la Rete, la possibilità di accesso al sapere è alla portata di tutti, indipendentemente se si è già sapienti o no. Ma può manifestarsi una disuguaglianza che non ha a che fare con la condizione economica o sociale, bensì con la capacità di distinguere tra conoscenza utile e leggende metropolitane, tra un sapere «certificato e verificato» o le bufale presenti nel Web.

Lei descrive il multitasking, cioè la possibilità di fare più cose contemporaneamente, come un mito, meglio una leggenda urbana. Il cuore del problema, per chi è in rete, è l’attenzione. Qual è il suo punto vista?

Il punto di partenza della mia riflessione sono le ricerche condotte dal matematico e sociologo Clifford Nass a Stanford, in base alle quali le persone non riescono a fare più operazioni simultanemamente. Piuttosto, ognuno di noi passa da un compito all’altro, mettendo «in attesa» quello che abbiamo iniziato a fare prima di interromperlo. Quando compiamo questo passaggio, corriamo il rischio di avere dei «costi», che psicologi e neurologi chiamano «switching costs». Detto altrimenti, noi possiamo compiere un’operazione, passare ad un’altra, per poi tornare alla precedente, ma corriamo il rischio di non tornare indietro, perdendoci le informazioni necessarie per continuare ad operare. Le ricerche di Clifford Nass hanno stabilito che il 90 per cento delle persone che svolgono più operazioni diventano meno efficaci e efficienti con il procedere del tempo.

Ho chiamato metcognizione la possibilità di passare da un’operazione ad un’altra. Il problema è gestire al meglio le nostre capacità di attenzione.

Lei propone di «mettere alcuni granelli di sabbia nella distribuzione automaticamente della capacità di attenzione» tra diverse operazioni….

Il modo migliore per descrivere la capacità automatica di distribuire l’attenzione lo possiamo dedurre dalla guida. Se vogliamo arrivare in un posto usando un’autostrada molto trafficata dobbiamo concentrarci su alcuni fattori per giungere a destinazione. Tenere conto della presenza di altre macchine, ovviamente, ma non dobbiamo neppure ignorare i punti di riferimenti che abbiamo. Se usassimo il pilota automatico, potremmo pure svolgere altre operazioni. Ma questo non è possibile, perché il traffico è un sistema costellato da incognite e imprevisti che hanno bisogno di essere continuamente monitorati. Lo stesso si può dire di quando siamo connessi alla Rete. Per questo serve bloccare la distribuzione automatica dell’attenzione e riprendere il controllo su ciò che stiamo facendo.

Mindfulness e network smart sono due concetti nella gestione dell’attenzione. Può spiegare cosa intende?

Mindfulness è un altro modo di chiamare la metacognizione. È concetto, un modo di essere molto semplice. Significa prestare attenzione e monitorare quanto accade nel mondo. Viviamo in un mondo interconnesso e siamo immersi in una comunicazione reticolare. Come sostengono antropologi e paleontologi, gli esseri umani hanno sempre costruito reti sociali. Il fatto che Facebook riproduca queste caratteristica umana di dare vita a reti sociali non è dunque una svolta epocale, come spesso invece viene sostenuto. La particolarità di apprendere è d’altronde una delle caratteristiche peculiari dell’homo sapiens. Le dinamiche per così dire reticolari, dunque non solo di quelle sociali, influenzano i comportamenti sia dei gruppi sociali che individuali. L’interdipendenza e la capacità di influenza reciproca tra singoli e gruppi, e viceversa, le possiamo riscontrare per i sistemi ecologici, per la reazione degli enzimi nelle cellule, nel funzionamento delle galassie e del linguaggio. Gli «scienziati sociali» studiano queste dinamiche di interdipendenza nelle reti sociali da ben prima che diventasse oggetto di attenzione nella computer science. Quello che propongo è di applicarle alle vita on-line. Concetti come capitale sociale, rete sociale possono aiutare a comprendere i comportanti individuali e collettivi nell’era digitale, un mondo cioè dove la Rete è parte integrante della realtà. La mindfulness e la network smart consentono, facendo leva sulla neurobiologia, di comprendere i processi di adattamento del cervello a quella immersione profonda nella Rete che stiamo vivendo.

Lei scrive anche di infotention, cioè di esercitare un controllo sulle informazioni che girano in Rete. Per me, quello che propone è una sorta di invito a una rinnovata ecologia della mente. È così anche per lei?

L’infotention richiede abilità soggettive, ma anche tecniche specifiche. Come ho detto prima, serve una mindfulness, ma anche procedure come quelle relative alla salvaguarda della privacy su Facebook. L’uso congiunto di entrambe aiuta a cercare quello che si desidera e anche per verificare che ciò che vediamo e leggiamo in Rete non sia una «bufala».

Cooperazione, collaborazione, condivisione: tre parole magiche per la Rete. Per lei sono le attitudini necessarie per una «buona» connessione gli uni agli altri. Cosa ne pensa dell’attitudine hacker che sottolinea che la questione più importante è la condivisione?

Il web non è stato creato da un governo o da una imprese. È stato infatti creato da milioni di persone che si sono adoperate per mettere in relazione informazioni e siti Internet. Questo è avvenuto ben prima che Internet diventasse una sorta di impresa commerciale. L’architettura sottostante la Rete è stata deliberatamente creata per favorire l’innovazione e il cambiamento attraverso la collaborazione. Nel 1980, ho scritto che spesso si andava nel web per cercare soluzioni a problemi particolari o per cercare un supporto emotivo, ma anche consigli utili per fare fronte a una malattia che poteva rivelarsi devastante, come il cancro. Si formavano comunità che chiamai virtuali.

Erano reali come quelle che esistevano al di fuori della Rete, ma non erano caratterizzate da una prossimità fisica. Erano gli anni nei quali registi, produttori cinematografici o televisivi, editori si muovevano con una idea dirigista dell’accesso e del consumo di contenuti. Ora viviamo in un mondo dove milioni di persone producono contenuti e li diffondono senza intermediazioni. Alcune rivoluzioni, come quelle in Nord Africa, le cosiddette primavere arabe, sono state facilitate dall’uso dei social network. In Cina, la Rete è usata per organizzare manifestazioni di contadini che vogliono opporsi alla costruzione di industrie chimiche nella loro zona. Piccole imprese o singoli artisti usano il crowdfounding come quello offerto da Kickstarter per raccogliere finanziamenti senza fare ricorso a banche o imprese finanziare. Decine di migliaia di volontari lavorano gratuitamente per l’ulteriore di diffusissimi sistemi operativi (Linux) e browser (Mozilla). Ciò che noi conosciamo come comunità virtuali, smart mobs, produzione sociale, crowdfounding sono incentrate sulla cooperazione, la collaborazione e la condivisione e stanno costruendo le infrastrutture del Ventunesimo secolo.