La scorsa settimana l’Economist ha pubblicato un lungo dossier sulle potenzialità dello sviluppo tecnologico per affrontare i problemi ecologici del pianeta, attraverso la produzione di energia pulita, minori sprechi e una razionalizzazione del suo impiego. Tutto ciò sarebbe racchiuso in tecniche ormai alla portata, a un passo dal loro impiego su scala industriale. Il dossier mette poi in relazione la possibilità di questa trasformazione con il crollo in corso dei prezzi del petrolio e del gas naturale. Il titolo che campeggiava in prima pagina era Seize the day (Cogli l’attimo), evidenziando l’intento di ripulire un business considerato sporco.

Ciò che risulta incomprensibile è il nesso tra riduzione dei costi dei carburanti tradizionali e prospettiva verde. Tanto più se l’autorevole settimanale inglese evidenzia le scelte statunitensi sul perdurare dell’uso di energie incentrate su combustibili di origine fossile o l’aumento dell’utilizzo del carbone in Germania dopo la decisione di abbandonare il nucleare. In questo quadro non appare molto ragionevole che il crollo a meno di 50 dollari al barile del greggio possa rappresentare un’occasione da cogliere. L’impostazione dominante sulla crisi ecologica, come del resto per la crisi economica, rimane incentrata su alcuni capisaldi inamovibili: il mercato, i consumi e gli sprechi spropositati, in definitiva il mantenimento e possibilmente l’aumento dei profitti. Viene affermato anzi che all’abbassamento dei prezzi dovrebbe essere affiancata una vigorosa politica contro i finanziamenti e gli incentivi pubblici all’uso delle energie tradizionali. Insomma sarebbe sufficiente il libero dispiegarsi dei meccanismi di mercato per creare le condizioni di un’uscita dalla crisi ambientale.

L’economia di mercato, dunque, non sarebbe parte del problema, ma semplicemente la soluzione. La battaglia in corso sui prezzi non viene letta come una disputa geopolitica innescata da alcuni dei principali produttori di combustibili fossili (in primis Arabia Saudita e Usa) a danno di altri (Iran, Venezuela, Russia, ecc..) e che pare un po’ scappata di mano, ma semplicemente viene considerata un’occasione per trasformare gli affari sporchi del capitalismo. Non è chiaro come ciò dovrebbe accadere lasciando inalterati i meccanismi di fondo che hanno generato l’inquinamento in cui ci troviamo. In questi anni di crisi economica le problematiche ambientali semmai sono state accantonate, i vertici internazionali sono divenuti sempre più rituali. D’altronde non inquinare rappresentava un costo perlomeno da rinviare.

La crisi non viene considerata da l’Economist, eppure, come ha evidenziato Naomi Klein nel suo ultimo libro, è proprio con la crisi che siamo tornati a inquinare di più. Dagli anni ’60 ai ’90, i livelli di emissioni sono scesi da un +4,5% annuo fino all’1%, per poi tornare a salire tra il 2000 e il 2008 a tassi del 3,4%. Una battuta d’arresto nel 2009, a causa della crisi finanziaria, per poi impennarsi nuovamente nel 2010 fino a un preoccupante +5,9%.

È evidente allora che il problema non sono le tecniche disponibili, ma i tempi di una loro adozione, in un sistema che fino a oggi riduce la propria impronta ambientale durante e sue profonde crisi, per tornare (e addirittura superare) gli standard precedenti, in nome della creazione di ricchezza e profitti per pochi. Il nesso tra ecologia e giustizia sociale è imprescindibile per qualsiasi processo di liberazione contemporaneo, ma a condizione che si cominci a parlare di quale ruolo debba avere un’innovata sfera pubblica, unico settore in grado di pianificare e coordinare un piano straordinario per salvare il pianeta e insieme a esso la società, a partire dalle classi popolari.