Nel Deserto di Sonora, è difficile stabilire il punto esatto in cui finisce il Messico e iniziano gli Stati Uniti: notoriamente Trump aveva promesso in campagna elettorale di prolungare il muro che separa le due nazioni anche nelle profondità di quel deserto, attraversato tutti i giorni da decine di migranti messicani che cercano di raggiungere gli States. Un’impresa, però, disperata e pericolosissima – perché l’inclemenza del deserto minaccia la vita di chiunque provi ad attraversarlo. Perfino gli animali e le piante che lo abitano hanno sviluppato dei meccanismi di difesa che li proteggono dalla sua inospitalità e li rendono altrettanto minacciosi, come spiega una delle persone intervistate da J.P. Sniadecki e Joshua Bonnetta nel loro documentario El mar la mar, vincitore del secondo premio del concorso internazionale di Filmmaker Festival che si è appena concluso a Milano.

«Non ci interessava raccontare una storia da un punto di vista politico prestabilito: volevamo lasciar emergere gli spazi, le voci del deserto di Sonora» spiega Sniadecki, filmmaker e antropologo che ha lavorato con il Sensory Ethnographic Lab di Harvard diretto da Lucien Castaing-Taylor e oggi è anche professore di cinema. El mar la mar osserva infatti questo deserto, le tracce lasciate da chi lo ha attraversato – una banconota, delle scarpe, uno zaino – ma contempla anche la «sparizione» di chi non è riuscito ad arrivare dall’altra parte, inghiottito per sempre da un luogo che cancella letteralmente ciò che – umano o inanimato – resta troppo a lungo sotto il suo sole cocente. Le uniche presenze «umane» del film sono le voci che si sentono fuori campo: migranti sopravvissuti che raccontano la loro esperienza, volontari che cercano di aiutarli seminando le rotte del deserto con taniche d’acqua e messaggi di speranza, ma anche studiosi e poliziotti di frontiera.

Cosa vi ha condotti nel deserto di Sonora?
La storia del film è cominciata molto lontano dal deserto e dal confine. Inizialmente intendevamo ripercorrere le tappe di Alexis de Tocqueville e Gustave de Beaumont nel loro viaggio in America – partendo quindi da New Orleans e dirigendoci a ovest fino ad arrivare in California. Lungo la strada siamo passati dal Texas occidentale: mano a mano che ci avvicinavamo al confine percepivamo il suo «potere» gravitazionale, e avvicinandoci alla California ne eravamo sempre più intrigati. Abbiamo scoperto tantissime cose su ciò che accade tra Messico e Usa, e per comprendere meglio quei luoghi abbiamo contattato studiosi e antropologi come Jason De Leon, che ha scritto una meravigliosa etnografia del confine, The Land of Open Graves, e ci ha messo in contatto con molte delle persone con cui parliamo nel film. Abbiamo passato molto tempo con gli attivisti che cercano di aiutare i migranti, con gente del posto, con i messicani che hanno fatto la traversata e anche i vigilantes che pattugliano la zona: nel corso di due anni di ricerca e riprese, siamo tornati nel deserto di Sonora moltissime volte.

Tutti coloro che hanno parlato con voi restano però fuori campo, possiamo sentire solo la loro voce.
È una scelta nata in primo luogo da ragioni pratiche, per rispettare il comprensibile desiderio di molte delle persone coinvolte di restare anonime. Inoltre, originariamente il film era stato pensato come un’installazione, con l’audio delle nostre interviste e uno schermo su cui scorrevano le immagini di una tempesta nel deserto. Ma volevamo anche fare in modo che gli spettatori fossero nella condizione di crearsi delle loro immagini mentali – un loro «cinema personale» – sulle persone intervistate e ciò che raccontano: rimuovere l’immagine per creare una connessione più intensa fra chi guarda e le storie che vengono narrate.

Il deserto viene rappresentato come un «personaggio» a sé stante.
Uno dei nostri scopi con El mar la mar era mostrare sullo schermo una sorta di ecologia del deserto di Sonora – fatta dei suoi paesaggi, la sua biologia, gli animali, le dinamiche interne, le temperature – che «inquadrassero» il dramma umano che lo attraversa quotidianamente. Così abbiamo cercato di portare in primo piano questa ecologia, che racchiude al suo interno storie umane e non-umane – come gli oggetti lasciati indietro dai migranti, o gli animali – e muoverci in maniera democratica fra tutti gli elementi che popolano quel deserto. Ci interessava molto anche il modo in cui il deserto cancella le cose, le stesse tracce delle persone che vi sono passate: non solo – come viene spiegato nel film – oggetti inanimati come le bottiglie d’acqua, ma anche gli stessi corpi di chi è morto nella traversata, che vengono letteralmente fatti sparire dagli elementi naturali. Motivo per il quale non potremo mai avere la certezza di quanti migranti muoiano nel deserto di Sonora ogni anno – e ragion per cui i controlli della Polizia di confine e dell’Homeland Security obbligano le persone a tentare la traversata proprio in quel punto.

Anche se non viene mai menzionata nel film, il confine evoca la battaglia politica che si combatte da decenni su di esso.
Mentre giravamo e montavamo il documentario non potevamo avere idea che Trump sarebbe stato eletto presidente degli Stati Uniti. Ma la lotta politica sul confine, e sul muro tra Usa e Messico, va avanti da molto tempo, fa parte della storia di quei luoghi appunto. Ci sono già moltissimi film, documentari e non, che raccontano il confine e ciò che vi accade con un forte orientamento politico. E sapevamo anche che molti spettatori avrebbero visto il film avendo già il loro punto di vista, la loro impostazione mentale, sulle questioni politiche che lo attraversano – ragione in più per evitare di indirizzarli in una direzione prestabilita, o di cercare in qualche modo di educarli. Abbiamo così scelto di concentrarci su questo paesaggio: un luogo di crisi ma anche bellissimo. Ci siamo sforzati di offrire un’esperienza diversa, principalmente contemplativa, e che contribuisse a una riflessione più vasta sulle terre di confine – non solo quella tra gli Stati Uniti e il Messico – e sul rapporto fra gli esseri umani e il paesaggio.

Sta lavorando a dei nuovi progetti?
Tornerò a girare nel deserto per un altro documentario più incentrato sulle persone che hanno scelto di eleggerlo a propria casa, lontano dalla civiltà. E sto lavorando anche a un film sugli spazi utopici nei boschi del Michigan. È la storia vera di Tom Crosslin e il suo compagno Rolland Rohm: due hippy/redneck/omosessuali/libertari che hanno fondato proprio nei boschi del Michigan un posto chiamato Rainbow Farm, dove si tenevano dei Festival e ci si batteva per la liberalizzazione della marijuana. Con le loro attività si sono inimicati il governo locale, e nel 2001 sono entrambi rimasti uccisi in una sparatoria con la polizia locale e l’Fbi. Li hanno seppelliti l’11 settembre del 2001, per cui la loro storia è stata eclissata dagli attentati alle Torri Gemelle.