Successo per la diciottesima edizione del festival friulano Jazz & Wine of Peace. Dopo l’anteprima nella Villa Manin di Passariano con il concerto in solitudine del fisarmonicista francese Vincent Peirani che ha dimostrato classe, tecnica e spessore tali da collocarlo nell’olimpo dello strumento l’apertura ufficiale è spettata al Devil Quartet di Paolo Fresu. Tra i tanti concerti molte le formazioni poco o per nulla presenti negli altri festival italiani e un ventaglio stilistico che copre le diverse declinazioni del jazz. Dal folk progressive di Riccardo Tesi alla fusion attardata di Stanley Clarke, da quella contemporanea di Jeff Ballard al free jazz classico del Trio Generations con Oliver Lake fino alle memorie dell’Età dell’Oro del Bebop della cantante Sheila Jordan protagonista di una lezione di stile e di gusto in duo con il contrabbassista Cameron Brown.

Tra le cose migliori ascoltate l’omaggio al genio armolodico di Ornette Coleman scomparso lo scorso giugno da parte di un trio tansnazionale a cominciare dal nome, Disorder at the Border, con Daniele D’Agaro alle ance, Giovanni Maier al contrabbasso e Zlatko Kaucic alle percussioni. D’Agaro imbraccia prevalentemente il sax alto a scapito dei consueti tenore e clarinetto: un contralto sputafuoco. Un tributo amorevolmente irrispettoso da parte di tre salutari sabotatori.

Appena accennati i temi, tra questi Mob Job e la ballad Faithful, e poi libertà assoluta, umorismo, furore e invenzioni a rotta di collo. Di rilievo il live set del nuovo quartetto del settantesettenne sassofonista Charles Lloyd che attraversa una stagione di fertile maturità costellata di ottime incisioni discografiche e convincenti performance. Muovendosi tra modalismo e orientalismo, Lloyd sa suggerire, indirizzare e lasciar fare i suoi musicisti. Di particolare interesse è il pianista Gerard Clayton impegnato a riformulare un nuovo canone del pianismo afroamericano senza abbandonare la tradizione ma portandola dentro la musica del terzo millennio.

Vertice assoluto il quintetto della pianista Myra Melford, musicista che attribuisce eguale importanza all’aspetto compositivo che a quello performativo, con il suo nuovo progetto Snowy Egret ispirato alla controstoria delle Americhe La memoria del fuoco di Eduardo Galeano. Debitrice ma non derivativa delle complesse tessiture di Henry Threadgill la sua musica è oggi più marcatamente cantabile, felicemente in bilico tra ricercatezza e godibilità. Merito di un quintetto fenomenale e di una scrittura limpida. Con lei Liberty Ellmann alla chitarra, Ron Miles alla tromba, Stomu Takeishi al basso e Ted Poor alla batteria che suonano con una facilità e una creatività sublimi. Libertà e disciplina. I brani si colorano di tinte latine, habanere seducenti, echi di fanfare di New Orleans, stranianti digressioni free. La pianista sfoggia un paio di assoli carichi di clusters e si abbandona al piacere eufonico. Una musica che cattura i corpi. Il senso di Myra per il blues.