L’«ultima magia» di Marco Santagata è soltanto la conferma, purtroppo postuma, del prolungato dialogo tra uno dei massimi studiosi delle Tre Corone del Trecento letterario italiano e il capostipite della nostra lingua e della nostra letteratura (L’ultima magia. Dante,1321, Guanda, pp. 224, euro 18).

NELL’ATTIVITÀ INTELLETTUALE di Santagata, in quella dello scrittore come in quella del professore universitario, si innestava sempre una convinta anche se mai troppo proclamata «politicità» volta a trasformare le risultanze scientifiche in alta divulgazione da un lato, in esito narrativo dall’altro. Già ne Il copista (Sellerio, 2000), Santagata riproduce il «componimento misto di storia e di invenzione» che da Manzoni in poi ha permesso ai nostri scrittori di finzione (valga per tutti l’esempio di Umberto Eco) di utilizzare i dati del certo come fondamento della verosimiglianza delle loro rappresentazioni.

Ma è soprattutto Dante che origina, in Santagata, la tensione tra «ricerca» e «scrittura» lungo un percorso continuo e costante, pur sempre intrecciato tra Dante e Petrarca, divenuto poi, a partire dagli Anni Duemila, la principale forma dell’operosità filologico-critica e artistico-espressiva.

A differenza, infatti, dei sempre più numerosi dantografi avventati e avventizi che popolano gli avvisi editoriali di questo settecentenario, la riscrittura di Santagata recupera i dati pur sporadici e talora incerti della «vita» di Dante (proposti già, a livello saggistico, nel Dante, Mondadori, 2012) e li trasforma in spunto narrativo. Già in Come donna innamorata (Guanda 2015) la resa finzionale della vita quotidiana di Dante (che scrive lode di Beatrice sull’angolo del tavolo da cucina mentre la moglie Gemma appresta il pasto familiare) è subordinata alla (nuova, davvero inedita) interpretazione di una sorta di «triangolo» di pensiero, di valori e di opzioni poietiche tra Guido Cavalcanti, Beatrice e Dante stesso. Ma non è da trascurare l’accentuazione della tematica dell’Amore, come in L’amore in sé (Guanda 2006), in cui Santagata perviene a una sorta di sintesi ermeneutica e artistica, insieme, sia di Dante che di Petrarca.

ECCO PERCHÉ questa recente pubblicazione, emersa quasi come lascito testamentario, è davvero soltanto l’ultima tappa del percorso magico che ha avviluppato il critico e lo scrittore al suo Autore. Nell’Ultima magia c’è ben di più della pur coinvolgente e immaginaria storia d’amore tra Alagia Fieschi, moglie di Moroello Malaspina, e il maturo poeta. C’è infatti una messe interessante e ben documentata di riferimenti storici, tra incipiente cattività avignonese della Chiesa e intrighi e manovre di varia provenienza che, talora, schizzano fango sull’esule, non più «tetragono ai colpi di ventura».

L’incontro amoroso di Alagia e Dante è congegnato da Santagata con l’applicazione della stessa grammatica dell’Amore che presiede all’incontro di Francesca e Paolo, nel V canto dell’Inferno. In esso, come ben noto, i due amanti si dichiarano ri-leggendo, per così dire, Lancillotto e Ginevra; nel romanzo, invece, Dante legge ad Alagia i versi famosissimi di… Dante!: «Taceva, ma il suo atteggiamento lasciava intendere chiaramente che si aspettava una storia d’amore e non un susseguirsi di nomi di personaggi del tutto sconosciuti… Poi lui aveva cominciato a recitare… E Alagia si era fatta nuovamente attenta… gli occhi di Alagia scintillavano… il viso di lei era vicinissimo al suo…». Analogamente, mentre Paolo, tutto tremante, bacia la bocca di Francesca, i due novelli amanti del romanzo: «Avvinghiati, si rotolarono sul pavimento».

L’«ULTIMA MAGIA» di Marco Santagata è dunque insieme operazione storico-critica e gradevole e affascinante narrazione con quel tanto di autobiografico che ogni autore cala inevitabilmente nella sua finzione. Le pagine iniziali e quelle finali del libro, infatti, sembrano davvero concretizzare magicamente il celebre assunto «de te fabula narratur». «Dal portone socchiuso della chiesa filtra una luce tremolante. I frati recitano i Vespri. La moglie e la figlia stanno preparando la cena. È questa la felicità?». E, ancora: «Ravenna 28 agosto 1321. A cena annuncerà ai figli di avere terminato il poema…. I figli non sapranno mai cosa ha veramente significato per lui aver compiuto quell’opera… Adesso si sente leggero. Pronto a partire per Venezia, e per l’altro viaggio senza ritorno che sa di dovere affrontare fra non molto. Eccomi, dirà, ho fatto ciò che mi è stato comandato. Sono felice?».