Il genere biografia ormai gareggia con il romanzo, il biografo con il biografato, i fatti con la personalità di turno, il solido granito con l’intangibile arcobaleno, stando alla analogia di Virginia Woolf, tanto citata, che si trova in The New Biography. Lo studioso possiede mezzi che solo cinquanta anni fa erano inimmaginabili, e insieme alla raccolta di tanti dati più o meno significativi cresce la sensazione che il nostro tempo divori se stesso a una velocità esasperante. Rispetto al romanzo, la biografia ha un valore aggiunto: è memoria di una vita vissuta, e impone un detour nel tempo fra cose, persone, fatti evanescenti. È anche cura di un’assenza pungente, menzognera promessa di un nuovo incontro. Chi non vorrebbe ascoltare le battute dell’unico Oscar riconoscibile anche senza cognome?

La tradizionale biografia, con la corposità della scrittura, arresta la fuggevolezza della narrazione che invece il suo equivalente filmico percorre velocemente. Un personaggio così straripante ma intermittente, fuori misura ma elusivo come Oscar Wilde va catturato con robuste reti biografiche. A lungo era riuscito a evadere, questa la buona notizia.

Restituito ai fatti
Con l’eco nelle orecchie di quello che fu il suo attacco preventivo contro il perbenismo di lettori e critici a difesa del Dorian Gray – «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o male, questo è tutto»; «L’arte in verità non rispecchia la vita, ma lo spettatore»; «Tutta l’arte è completamente inutile» – accogliamo la nuova, massiccia biografia, appena uscita con la firma di un giovane storico inglese Matthew Sturgis, Oscar vita di Oscar Wilde, traduzione di Luca Fusari e Sara Prencipe, Utet, pp. 1036, € 42,00.

L’autore si avvale di scoperte importanti: l’intero verbale del processo relativo alla causa per calunnia intentata da Wilde contro il marchese di Queensberry, uno dei primi taccuini, il dattiloscritto annotato di Salomè, il testo definitivo del De Profundis. «Con questo libro mi sono prefisso di restituire Wilde alla sua epoca e ai fatti. Di guardarlo con l’occhio dello storico, di tenere conto del caso e delle contingenze, di tracciare la sua esperienza di vita come fu lui stesso a viverla».

Incurante, anzi forse a sfida, di quanto il suo biografato avesse scritto: «Niente è più facile che accumulare fatti, niente è più difficile che usarli».
Richard Ellmann lo aveva proceduto nella difficile impresa con il suo voluminoso Oscar Wilde, ben tradotto da Ettore Capriolo, e premiato con il Pulitzer. Una biografia lacunosa forse secondo gli standard attuali, ma si fondava sul «senso del fatto», come lo aveva definito Walter Pater, sull’intuizione di un mondo, di una prospettiva, districata dalle equivoche condizioni del presente.
«Lo storico, con assoluta onestà, tra la moltitudine dei fatti che gli si presentano deve necessariamente scegliere, e scegliendo afferma qualcosa del suo stato d’animo, qualcosa che non viene dal mondo esteriore ma dalla visione interiore».

Sturgis ha raccolto fatti e fattarelli che hanno vivacizzato i due eccellenti capitoli centrali sui processi e la detenzione carceraria. «Wilde, splendente nel suo soprabito blu scuro con gli orli di velluto e fiore bianco all’occhiello, si sedette al tavolo del suo avvocato». Ma di lì a poco nella prigione di Pentoville: «… lo raparono e ricevette la sua prima dose di bromuro di potassio, il sedativo detto ‘la medicina della prigione’ che placava la libido. Gli aprirono una cella, il cui numero divenne il suo nome».

La spettacolarizzazione del dramma di Wilde attinge alle pubblicazioni di Montgomery H. Hyde, specialmente The Trials of OW del 1948, alle biografie della moglie e della madre di Oscar, di Alfred Douglas, alle memorie di amici e nemici, alla vita di Hesker Pearson, The Life of OW, e soprattutto alle Complete Letters of OW, a cura di R. Hart-Davis e M. Holland (2000, tradotte da Silvia De Laude e Luca Scarlini). L’ondata di saggi sulla cultura gay e i queer studies hanno rimescolato ancor più le carte. «Ovviamente è sempre fruttuoso esplorare la tensione tra le maschere, le auto mitologie, le pose di Wilde e le verità che esse nascondevano, ma tra le pagine di Ellman ci sono momenti in cui il nostro eroe sembra quasi sfilare tra gli eventi della propria vita nei panni di un ‘Oscar Wilde’ leggendario e postumo», si scusa Sturgis impegnato a calcolare le imprevedibili «contingenze» a cui va incontro Oscar. Il quale in Italia è stato sempre amato e tradotto (a cura di Masolino d’Amico per Mondadori, poi New Compton, le commedie) e da ultimo restituito nella indispensabile Vita di OW attraverso le lettere, una oculata, commentata scelta delle lettere, accresciuta da ulteriore materiale.

I tre anni dall’uscita di prigione alla morte, nel 1900, sono densissimi di lettere: Oscar ormai viveva solo e in esilio, bisognoso del modesto assegno, di vestiti nuovi, di libri, semplicemente di chiacchierare con i pochi amici rimasti. «Come ti avvicini all’Italia la bellezza fisica ti corre incontro. A Nizza conoscevo tre ragazzi simili a bronzi antichi, perfettissimi di forma. I ragazzi inglesi sono criselefantini. Gli svizzeri per la maggior parte sono intagliati nel legno con un coltellaccio smussato; gli altri sono intagliati nelle rape».

L’epistolario batte la biografia: la voce si impiglia fra le righe, la freddezza dell’occhio è vinta. Dalla sfera estetica praticata per eccellenza, si sposta sul piano dell’etica: nella lunga lettera ad Alfred Douglas, la De Profundis, scrive su Cristo: «Con un’ampiezza e una meraviglia di immaginazione che quasi riempie di sgomento, egli prese l’intero mondo dell’inarticolato, il mondo senza voce del dolore, come suo regno, e fece di se stesso il proprio eterno portavoce».

Un cronista potenziale
Della eredità che ci ha lasciato fa parte un superbo autoritratto con il quale ogni biografo dovrebbe misurarsi: «Io ero un uomo che occupava un rapporto simbolico con l’arte e con la cultura della sua epoca. Me ne ero reso conto da solo all’alba stessa della mia virilità, e in seguito avevo costretto la mia età a rendersene conto anche lei. Pochi uomini occupano una posizione simile in vita ricevendone un paragonabile riconoscimento. Di solito se ne rende conto al massimo lo storico o il critico, e molto tempo dopo il passaggio dell’uomo quanto dell’età sua. Byron fu una figura simbolica, ma i suoi rapporti erano con la passione della sua epoca, e con il suo tedio della passione. I miei furono con qualcosa di importo più nobile, più permanente, più vitale, di prospettive più ampie».

Ma un anno dopo: «Voglio una bicicletta». E anche: «Lui ha detto che non mi avrebbe dimenticato mai più; e veramente non credo che mi dimenticherà perché ogni giorno lo baciavo dietro l’altar maggiore». Tra i due Oscar ce n’è un terzo di illuminata umanità, nella lettera al direttore del «Daily Chronicle» del 27 maggio 1897 sul rigore disumano delle carceri inglesi: il pianto accorato del piccolo terrorizzato, la generosità del secondino che gli dà qualche biscotto, e per quella trasgressione è licenziato, l’idiota Prince che sta diventando pazzo sotto le vergate… Che straordinario giornalista sarebbe stato Oscar.