La minaccia che il premier Renzi sta agitando in queste ore sul possibile ricorso alla fiducia sulla legge elettorale rischia di segnare un tornante decisivo per la storia di questa legislatura. Non solo per lo strumento in sé, che avrebbe bisogno di essere dosato con cura, e che invece è diventato nell’ultimo decennio prassi ordinaria per ridurre a un Si o a un No la dialettica parlamentare. Ma perché finirebbe per agire come una clava su materia costituzionalmente rilevante che non dovrebbe essere affatto sottoposta ad una decisione di imperio del governo.

Per queste ragioni abbiamo scritto al presidente Mattarella, segnalandogli una preoccupazione autentica rispetto a quello che potrebbe configurarsi come un atto blasfemo sul piano istituzionale, che ha precedenti solo nel lontano 1953 con la Legge Truffa. Ma, come ci ricorda spesso Zagrebelsky, viviamo in un tempo esecutivo dove la velocità delle decisioni diventa un imperativo categorico e irrinunciabile anche a costo di forzare sulla Carta Costituzionale e sul buon senso politico. E Renzi è l’interprete principale di questa visione, è l’artefice di una rivoluzione passiva dove le assemblee elettive sono più un impaccio alla piena realizzazione del suo disegno politico neopresidenzialista – come ha definito l’Italicum il politologo D’Alimonte – che un luogo di confronto e di mediazione.

Questo passaggio ci rivela anche un’altra cosa: la reductio ad unum del Pd, la compressione definitiva di una dialettica interna che negli ultimi mesi aveva monopolizzato il dibattito politico senza tuttavia avere alcuno sbocco.

Oggi, quel partito sta compiendo l’ultimo passo verso la sua trasformazione in un soggetto personale, dove le minoranze godono di un semplice diritto di tribuna ed un impianto maggioritario domina la costruzione programmatica e la selezione della classe dirigente. Un polo di attrazione formidabile che sulla base di un conformismo trasformista rischia di espellere le culture critiche sia sul piano interno sia nella definizione delle alleanze politiche e sociali.

La cartina di tornasole è il territorio, dove esplode una questione morale che non origina solo da inchieste giudiziarie. Un mix di populismo e di trasformismo, che come sempre viaggiano insieme, producono consenso, ma nessun consolidamento degli istituti della partecipazione. Vincono, ma non radicano nulla se non un distacco sempre più forte dalla politica come strumento di liberazione.
Sono i semi avvelenati di venti anni di berlusconismo che infettano la sinistra e la trasformano geneticamente. L’Italicum è sostanzialmente questo: vincere nel breve periodo, senza porsi il problema di un equilibrio di sistema durevole nel tempo, in grado di rifuggire dal plebiscitarismo e arginare quelle forze populiste e di destra che potrebbero coagularsi attorno al binomio sistema-antisistema.
Il premio alla lista col ballottaggio produce nei fatti una nuova democrazia bloccata, con al centro il partito della Nazione e attorno una somma di impotenze incapaci nell’immediato di farsi opposizione e alternativa di governo. Ma c’è infine una questione ulteriore che non deve e non può’ essere taciuta.

Questo Italicum era figlio di quel patto del Nazareno che aveva aiutato e condizionato l’ascesa iniziale di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Quella innaturale alleanza ha prodotto un sistema istituzionale che sulla carta sembra scritto nei laboratori di quella Grande Riforma di cui Craxi fu il primo alfiere. Tuttavia, quell’Italicum aveva una base parlamentare ampia, che si fondava sul principio indiscutibile che le regole del gioco si scrivono insieme o con una maggioranza ampia e legittimata. Venuta meno quell’intesa, all’indomani della iniziativa migliore della legislatura – l’elezione di Sergio Mattarella al Quirinale – il fronte a sostegno delle riforme si è ristretto ulteriormente, a destra come a sinistra. Una “minoranza” potrebbe alla fine approvare quell’Italicum che assomiglia sempre più’ a un Sovieticum, il passaggio da un sistema plurale al monopartitismo.

Per fermare questa impostazione c’e’ bisogno di determinazione e di responsabilità. Determinazione nei confronti di chi, come i corifei del renzismo, fa richiami alla disciplina di partito come se fossimo appena usciti dal plenum del comitato centrale di Mosca nel 1936. Responsabilità, perché la Costituzione vale più di un governo o di una legislatura.

* L’autore è presidente dei deputati di Sel