In un libro scritto esattamente vent’anni fa, Richard Rorty descriveva le fratture che già allora attraversavano la società americana e le loro conseguenze politiche con la precisione del filosofo e la sicurezza del profeta: «Gli iscritti ai sindacati e i lavoratori non organizzati e non qualificati si renderanno conto prima o poi che il loro governo non sta nemmeno cercando di impedire ai salari di sprofondare, né di ostacolare il trasferimento all’estero dei posti di lavoro. Nello stesso momento, si renderanno conto che colletti bianchi che vivono nei sobborghi residenziali – loro stessi terrorizzati dalla possibilità di essere eliminati- non si lasceranno tassare per fornire servizi sociali a qualcun altro. A quel punto, qualcosa si romperà. L’elettorato che non vive nei sobborghi residenziali deciderà che il sistema politico è fallito e comincerà a guardarsi intorno per trovare un Uomo Forte da votare. Qualcuno disposto a promettere che, una volta eletto, non saranno più i burocrati compiaciuti, gli avvocati imbroglioni, gli strapagati venditori di titoli, o i professori postmoderni a dettare legge. Una volta che l’Uomo Forte si insedierà, nessuno può prevedere cosa accadrà».

Ieri alle 12, ora della costa orientale, Donald Trump è arrivato. Eletto da una minoranza del Paese, sulla base di promesse impossibili, di minacce truculente, di falsità evidenti. I lavoratori americani, vittime di 40 anni di stagnazione dei salari, hanno deciso che nulla potrebbe essere peggio della sorte che gli è stata riservata da Clinton, Bush e Obama, e hanno deciso di tentare la sorte con l’outsider. Con il palazzinaro che promette di deportare 11 milioni di immigrati non in regola con i documenti e di costruire un muro alla frontiera con il Messico. Oltre a tagliare le tasse dei milionari e togliere l’assistenza sanitaria a 18 milioni di persone, naturalmente. Ora nessuno può dire cosa accadrà, soprattutto con un personaggio ombroso e imprevedibile come Trump, ma a Washington c’è di nuovo un presidente con una maggioranza del suo stesso partito in Congresso, qualcosa che c’è stato solo per otto anni degli ultimi 35 anni e ha contribuito non poco alla sensazione di un «sistema politico fallito».

I repubblicani hanno tutto il potere in mano adesso e intendono conservarlo a qualsiasi costo, insediando rapidamente un governo di milionari e nominando uno dei loro come giudice alla Corte Suprema, dove c’è un seggio vacante da ormai un anno.

Possono anche guardare con tranquillità alle elezioni di medio termine del 2018 perché alla Camera la manipolazione delle circoscrizioni garantisce loro la maggioranza pur prendendo sostanzialmente meno voti dei democratici. Al Senato il caso vuole che nel 2018 siano in scadenza almeno cinque senatori democratici di Stati dove Trump ha stravinto. È quindi probabile che la ristretta maggioranza repubblicana di oggi (52 seggi contro 48) tra due anni si allarghi ulteriormente. Naturalmente, potrebbe accadere il contrario: una presidenza Trump debole, vittima di molteplici scandali legati ai conflitti di interessi, ai rapporti con Putin, alle violazioni etiche dei suoi collaboratori e dei parlamentari repubblicani. Un’amministrazione che non si salverebbe a colpi di tweet, indebolita dalla feroce ostilità degli apparati di Washington, che non perdonano a Trump gli insulti in campagna elettorale, né l’indifferenza del nuovo presidente verso le loro tradizionali priorità geopolitiche da guerra fredda.

Può essere, ma non c’è da sperarci. Per combattere un presidente bonapartista occorre innanzi tutto un’opposizione determinata, un partito e un leader che uniscano quella maggioranza di americani che non volevano Trump presidente. Ed è questo che manca: mai come adesso il partito democratico è apparso senza spina dorsale, senza idee, senza carisma, uno spettro ben rappresentato dalle facce terree e segnate della coppia Clinton, ieri. Non sarà l’elegante Obama a riaprire il dialogo con i lavoratori manuali bianchi, visto che in otto anni di presidenza non ha fatto nulla per migliorare la loro condizione, se non varare una riforma sanitaria originariamente concepita dai repubblicani e sperimentata in Massachusetts dal suo avversario del 2012, Mitt Romney. Una riforma basata sull’idea di sussidiare l’acquisto di assicurazioni sanitarie private: basterà quindi eliminare i sussidi, come il Congresso ha già iniziato a fare, per rendere inevitabile il crollo dell’intero edificio nel giro di poche settimane.

I democratici avevano vinto il biglietto della lotteria trovando un candidato come Obama nel 2008 e hanno avuto una seconda possibilità con Bernie Sanders nel 2016: le hanno sprecate entrambe. Il prezzo da pagare sarà molto alto, in particolare per chi aveva creduto in loro: i giovani, le minoranze, gli immigrati. Aspettiamoci il peggio.