Pordenone. Il programma della 36sima edizione delle Giornate del cinema muto mantiene un buon equilibrio tra l’essere diverso e diversificato rispetto agli schemi della sua proposta tradizionale e il restare in linea con il passato, nella filologia e nella ricercatezza dell’offerta, confermando quindi il merito della “nuova” direzione di Jay Weissberg. Questo festival non corre proprio alcun rischio di diventare una manifestazione per vecchietti che certi film muti li hanno visti da bambini, come dimostra la stragrande maggioranza di spettatori stranieri e giovani studiosi che richiama.

Ampio spazio quest’anno per uno spettatore curioso non solo di filmoni con dive e generi muti nascenti (il western delle origini c’e’ comunque), ma anche di “film di viaggio sovietici” che affidano al cinema la rappresentazione della varieta’ etnografica e paesaggistica delle repubbliche socialiste, della sezione “Silent Africa in Norway” e del Viaggio in Caucaso e Persia del 1910 di Mario Piacenza. O del cinema della grande guerra, fiction e doc, o quello del grande fotografo italiano Luca Comerio, e persino di film medici di Roberto Omegna (Antologia di filmati neuropoatologici realizzati dal prof. Camillo Negro, 1906-1918). Questo per non dimenticare l’enorme contributo che il cinema scientifico e di viaggio ha dato allo sviluppo della tecnica e del linguaggio del cinema.

Serata inaugurale con un grande classico che non stanca mai, La folla di King Vidor, un film che scarta a priori il glamour per parlare con onesta’ ed empatia dell’”uomo comune”, dell’impiegato John e della sua compagna Mary, immersi nella massa (inizialmente il film si intitolava The Mob, con un termine assai piu’ inquietante) e nella macchina fordista – un po’ come il Chaplin di Tempi moderni, tra nostalgia (definita dalla critica “populista”, ma di questi tempi darebbe adito a pericolosi fraintendimenti, quindi non usiamo questo aggettivo) per una vita comunitaria che la citta’ esclude, e uno stile che richiama a tratti l’espressionismo ma anche le immagini metropolitane dei fotografi realisti della Film and Photo League degli anni Trenta.

Sembrerebbe parte di una programmazione tradizionale del festival la serie dei film con Pola Negri, ovvero con una delle piu’ famose star del muto hollywoodiano, ma invece i tre film proposti, tutti del 1918, documentano la sua precedente carriera berlinese. La russo-polacca-rumena Barbara Apolonia Chałupiec, figlia di un rivoluzionario che fini’ in Siberia, fin da giovanissima ballerina e attrice teatrale, scelse come nome d’arte Pola Negri: si’, proprio dal cognome della poetessa italiana; a quel tempo infatti, in teatro e all’opera un cognome italiano faceva comodo ai performers, data la gloria di cui godevano gli artisti nostrani. (Persino le americane optavano spesso per un cognome che finiva in vocale, come nel caso delle varie Virginia Valli, Viola Dana, Nita Naldi.) Durante la guerra l’”Asta Nielsen polacca” si trasferisce a Berlino dove si perfeziona con Max Reinhardt e Ernst Lubitsch, facendo cinema sia di alto profilo che piccole produzioni, a quanto pare piuttosto ose’. Le Giornate propongono Tessera gialla, Mania (dell’ungherese Eugen Illes) e la Carmen di Lubitsch, al quale fece seguito il famoso Madame Dubarry la cui straordinaria popolarita’ transatlantica richiamo’ l’attenzione di Hollywood (1922). L’invito al maestro Lubitsch e all’attrice mitteleuropea e’ il primo di una lunga serie e coincide con il passaggio del cinema americano dalla fase popolare del consumo interno alla conquista dei mercati europei, fiaccati dalla guerra, con il ricorso alla cooptazione di registi, attori, artisti e intellettuali del vecchio continente. Ci si dimentica sempre che prima della prima guerra mondiale non era il cinema americano a dominare il mercato internazionale, ma quello europeo, in particolare italiano, francese, svedese e tedesco, delle quali cinematografie il festival propone un campionario di significativi restauri e ritrovamenti. Anche il divismo nasce prima in Europa, con Asta Nielsen per l’appunto, e con le dive italiane, e persino il lungometraggio: le date dei film in programma certificano il tutto.

Tornando a Pola Negri: bella in un modo particolare, faccia larga, grandi occhi neri, capelli scuri, non e’ un prototipo del fascino slavo, ma piuttosto un tipo mediterraneo, come segnala il suo frequente casting in ruoli di spagnola. A Hollywood fu una delle star piu’ ricche, con una villa modellata sulla (palladiana) Casa Bianca e una di quelle che, come le dive nostrane, imponevano i trend della moda, come lo smalto rosso sulle unghie dei piedi o i turbanti di seta lucida, sfruttati in ruoli di vamp o di donna superfashion, sempre in toilettes da sera. La “dissolutezza” di alcuni suoi ruoli attraversa anche la sua vita privata, fatta di diversi matrimoni con principi russi, famosi affairs con Chaplin e Valentino, al cui funerale insceno’ una serie di languidi svenimenti, per poi risposarsi di li’ a pochi mesi. Ebbe anche una storia con un altro italiano in America, allora assai popolare, il cantante e attore Russ Columbo, il cosiddetto “Valentino della radio”; incisero entrambi un classico del tempo, Paradise, con grande successo. Vedere questi suoi film “precoci” (non i primi perche’ la Negri aveva fatto cinema anche in Polonia) ci permettera’ di valutare la sua stoffa di attrice, al di la’ del suo glamour, potendola confrontare inoltre con una sua rivale americana di rango, Theda Bara, vampira di A Fool There Was (Frank Powell, 1916).

Di sicuro impatto anche il classico tedesco Schatten (Artur Robison, 1923) autentico prototipo del cinema muto: un racconto originariamente solo per immagini, senza didascalie, tra espressionismo e impressionismo; ombre cinesi e psicanalisi, incubi, desideri repressi e fantasie sensuali. Le scenografie giocano un ruolo predominante rispetto ai personaggi, proponendo uno sperimentalismo raffinato e affascinante, che evoca l’immagine del cinema come “ombre elettriche” secondo la definizione asiatica del mezzo.

(Artur Robison, 1923) autentico prototipo del cinema muto: un racconto originariamente solo per immagini, senza didascalie, tra espressionismo e impressionismo; ombre cinesi e psicanalisi, incubi, desideri repressi e fantasie sensuali. Le scenografie giocano un ruolo predominante rispetto ai personaggi, proponendo uno sperimentalismo raffinato e affascinante, che evoca l’immagine del cinema come “ombre elettriche” secondo la definizione asiatica del mezzo.