Se nei primi giorni dell’epidemia il Covid-19 sembrava una disgrazia piovuta dal cielo su tutta la società, man mano che si prendono le misure del contagio appare evidente la relazione tra rischio sanitario e status socioeconomico. Non è vero che ci si ammala tutti nello stesso modo, ci sono categorie della popolazione più a rischio di altre. Una parte importante dei contagi avviene infatti sul posto di lavoro, dove l’organizzazione e le tutele non sono uguali per tutti né sotto il controllo del lavoratore che rischia in prima persona. Per descrivere gli aspetti sociali dell’epidemia, è necessario unire i dati dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli Infortuni sul lavoro (Inail). Lo hanno fatto il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e il direttore dell’Inail Sergio Iavicoli nell’incontro con la stampa di ieri mattina, in cui hanno presentato insieme numeri e fattori di rischio per le diverse categorie dei lavoratori.

Brusaferro ha descritto come il coronavirus abbia colpito in modo differenziato le varie categorie di operatori sociosanitari. In tutto sono stati contagiati circa 14 mila operatori e operatrici su 144 mila casi totali, due terzi dei quali donne. Tenendo conto che i dati sugli operatori arrivano con un po’ di ritardo, la stima della percentuale sul totale è dell’11-12%. All’interno dei sanitari, la categoria più colpita è quella degli infermieri, che rappresenta il 34% degli operatori contagiati. I medici rappresentano ufficialmente il 18% dei contagiati, ma si tratta con tutta probabilità di una sottostima, perché i medici di base contagiati sono certamente più dei 117 riportati. Considerando che in Italia ci sono 1,5 infermieri per ogni medico, significa che le due categorie si ammalano più o meno con la stessa probabilità. Infine, il 22% sono operatori socio-sanitari, gli addetti ai servizi di assistenza non strettamente sanitaria ai malati, presenti soprattutto nelle residenze per anziani.

La percentuale di operatori infettati in ospedale (40%) è identica a quella di chi è stato contagiato in strutture di riabilitazione e case di riposo. Dato che il personale degli ospedali è di gran lunga più numeroso, è un’ulteriore conferma che nelle residenze per anziani sanitari e pazienti corrono rischi ben maggiori. L’indagine dell’Iss sui morti fantasma nelle residenze sanitarie assistenziali prosegue. Nonostante i dati ottenuti finora riguardino un quarto delle strutture, le vittime attribuibili al Covid-19, pur in assenza di un tampone ma con sintomi compatibili con la malattia, sono oltre 1400.

Gli operatori sanitari non sono l’unica categoria a rischio. Come ha riportato Iavicoli, anche lui nel comitato tecnico scientifico al servizio del governo, ci sono filiere produttive che non hanno mai smesso di lavorare nonostante il lockdown. In agricoltura, quasi il 94% dei lavoratori è attualmente attivo. Nei trasporti, nell’informatica e nella finanza, la percentuale è vicina al 100%. È invece “sospesa” l’attività per oltre il 60% dei lavoratori dell’industria e dell’edilizia, e quasi l’80% nel settore alberghiero e della ristorazione. In totale, i lavoratori “sospesi” sono solo 8 milioni, cioè un terzo del totale. Di questi, un lavoratore su tre è donna. Il telelavoro ha un’incidenza notevole solo nel settore scolastico e nella pubblica amministrazione, dove supera l’80%. Negli altri settori, finanza compresa, la percentuale dei lavoratori in “smart working” è inferiore al 30%: un dato che smonta il luogo comune secondo cui le aziende sarebbero più pronte a innovare la propria organizzazione rispetto al settore pubblico.

Nell’avvicinamento alla «fase 2», l’Inail calcolerà il rischio professione per professione. Questa classificazione negli Usa è già stata fatta, ha raccontato Iavicoli. Secondo i dati americani, il lavoro di cura (non solo sanitario) è quello più a rischio, insieme al personale di volo sugli aerei. La professione più al sicuro è il taglialegna.