La campagna presidenziale americana è stata segnata questa settimana da due eventi significativi. Martedì è stata resa nota la platform democratica, il programma politico che verrà messo all’ordine del giorno nella convention di Philadelphia e con il quale il partito ha detto una c osa decisamente di sinistra.
Lo stesso giorno Donald Trump si è recato nei sobborghi di Pittsburgh nel cuore del hinterland deindustrializzato della Pennsylvania, uno degli stati chiave per le elezioni, per tenere un discorso singolarmente antiglobalista.

Il documento del partito democratico ha un taglio nettamente più progressista della candidata in pectore. Il programma prevede una nuova legge di regolamentazione delle banche e per limitare la speculazione di Wall Street. Sulla pena di morte (un tema su cui Hillary Clinton è possibilista in casi con «circostanze speciali») chiede l’abolizione immediata di una «punizione crudele e anacronistica, che non ha alcuna ragione di esistere negli Stati uniti». I democratici sostengono agevolazioni fiscali per le famiglie più disagiate, un minimo sindacale federale di $15 l’ora e chiedono una riforma della giustizia che ponga fine alla «carcerazione di massa» delle minoranze, chiuda le prigioni privatizzate e investa nel reinserimento. È la prima volta che il tema viene affrontato in questo termini ed è significativo soprattutto perchè il movimento afro americano ha esercitato forte pressione su Hillary per abolire molte leggi di «tolleranza zero» risalenti all’amministrazione di suo marito quando vennero applicate nella «guerra» alla droga e alla criminalità.

C’è molta farina insomma del sacco di Bernie Sanders a cui è stato concesso di nominare cinque dei sette membri della commissione. Fra questi hanno contribuito a stilare il programma Keith Ellison primo deputato musulmano afro Americano eletto al congress, Jim Zogby, uno dei principali accademici impegnati nella lotta pro-palestinesi, Bill McKibben un ambientalista di punta che ha documentato il mutamento climatico in numerosi libri e la militante Indiana Americana Deborah Parker. Solo Cornel West, eloquente sostenitore di Black Lives Matter e fautore una di una lucida critica da sinistra alle politiche moderate di Obama, si è astenuto dalla ratifica.

Su alcuni punti è prevalsa l’ala moderata vicina a Hillary. Nella versione finale non è stato inserita ad esempio l’opposizione categorica a Ttip e Tpp volute dai sandersiani a favore di un più generico impegno a non ratificare trattati che «pregiudichino standard sindacali e ambientali». Una tassa supplementare sugli idrocarburi e la sospensione del fracking sono stati ugualmente cassati. E non è passata la condanna proposta da Zogby «all’occupazione illegale» ed agli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Quest’ultima non è una sorpresa dati gli stretti rapporti fra Clinton e Israele. Il programma non è vincolante ma rappresenta indicazioni di massima su cui si svilupperà il dibattito a Philadelphia, detto questo contiene chiare concessioni all’«ala democratica del partito democratico» come la definì a suo tempo Howard Dean: la sinistra mobilitata dalla campagna di Bernie.

Contemporaneamente alla pubblicazione della platform, Donald Trump ha fatto un discorso emblematico come non mai degli attuali paradossi su entrambe le sponde del Pacifico. Davanti a una raffineria dismessa Trump si è allineato per la prima volta ufficialmente con la Brexit , promettendo che «anche noi ci riprenderemo il paese» – in barba al caos politico che imperversa in Inghilterra.

Poi il miliardario che ha imbastito la sua campagna di immagine come businessman inarrestabile e decantato le proprie fantastiche ricchezze come garanzia del futuro successo politico, ha denunciato le forze della mondializzazione che ordiscono ai danni della working class beneficiando le «élites globali», di cui Hillary Clinton in particolare è la personificazione. Contro il loro operato ha promesso di stracciare i trattati commerciali – dal Nafta (libero commercio Americano, ratificato da Bill Clinton) a Ttip e Tpp attualmente in esame – nel nome di una nuova «indipendenza economica americana».

Una strabiliante mescolanza di nazionalismo, xenofobia, antiglobalismo e isolazionismo che in epoca altra che la presente sarebbero state universalmente derise. Ed effettivamente il discorso è stato attaccato con uguale forza dai sindacati («in tutta la sua vita Trump non ha mosso un dito per aiutare un solo lavoratore», ha detto Richard Trumka, presidente della confederazione Afl-Cio) e dall’American Chamber of Commerce, la Confindustria Americana, sconcertata dall’eresia isolazionista di Trump.

Un discorso insomma che vent’anni fa avrebbe potuto essere stato un comizio no global di Seattle in cui ha citato una famosa frase di Quinto Potere, l’antesignana satira di costume politico di Sydney Lumet, in cui un anchorman squilibrato solleva le masse gridando in diretta: «Siamo incazzati neri e non ci stiamo più!».

Un paradosso illogico, dunque ma la campagna di Trump da tempo – proprio come quella per la Brexit – non si rivolge alla logica ma alle emozioni. Poco conta quindi che l’autore della diatriba anti globalista e anti-cinese fabbrichi prodotti in Cina per importarli in America. La sua performance come protettore della «middle class» ha voluto puntare direttamente alla pancia dell’hinterland bianco deindustrializzato e impaurito. Pronti a riprendersi un paese che esiste solo nei loro ricordi e nella conveniente demagogia trumpista.