La stanza numero 16 è al primo piano, la prima a sinistra una volta superato il cancello di uno dei quattro bracci in cui è suddiviso il reparto di Medicina Protetta dell’ospedale Pertini di Roma. Il letto in cui fu ritrovato Stefano Cucchi, rannicchiato come se dormisse e invece morto, alle 5,30 del 22 ottobre 2009, è in fondo, vicino alla finestra.

Oggi è fuori uso, avvisa un cartello scritto a mano all’ingresso, per questo la stanza non è occupata da nessun malato. Per lo stesso motivo manca pure la televisione. Ci sono invece un tavolino, un portaflebo agganciato al muro, il bagno con la doccia. Le mura sono imbiancate di fresco. Paragonato alle carceri italiane, vetuste e sovraffollate come gironi danteschi, questo reparto con stanze singole dall’arredamento spartano ma nuovo – appena 22 posti letto, ridotti a 15 per carenza di infermieri – e una piccola biblioteca comune, appare come un’oasi.

Eppure, è tra queste mura che si è consumata, meno di quattro anni fa, una morte che, per la sua dinamica e grazie alle immagini-choc diffuse ai media dalla famiglia, è diventata immediatamente un caso e ha indignato l’opinione pubblica più di qualsiasi altra tra le centinaia che compongono la Spoon river carceraria italiana: quella di un giovane di appena 31 anni, fermato per possesso di modiche quantità di sostanze stupefacenti e rimbalzato per una settimana tra caserme, carceri e ospedali. Una fine cui nemmeno la recentissima sentenza che ha scaricato le responsabilità sui medici che l’hanno avuto in cura negli ultimi giorni è riuscita a dare una risposta esauriente.

Dal giorno della morte di Stefano Cucchi, qui dentro sono passati i politici della commissione parlamentare d’inchiesta che il 17 marzo del 2010 aveva sostanzialmente imputato ai medici che lo avevano avuto in cura di non aver compreso quanto le condizioni del giovane fossero gravi, mai un giornalista e tantomeno un fotografo. All’indomani del giudizio di primo grado che, il 5 giugno scorso, ha condannato cinque medici del Pertini per omicidio colposo e un sesto per falso ideologico, assolvendo gli altri imputati – tre infermieri e tre guardie penitenziarie – uno dei dottori condannati, Stefania Corbi, aveva scritto una lettera – pubblicata dal manifesto – in cui, esprimendo solidarietà alla famiglia del ragazzo, sostanzialmente diceva: «Non siamo degli aguzzini, non abbiamo lasciato morire Cucchi, l’ospedale non è un lager, non vogliamo essere equiparati a chi è accusato di pestaggio». E concludeva invitando a venire all’ospedale per «verificare personalmente chi siamo e come lavoriamo».

L’ospedale-carcere

La dottoressa Corbi mi accoglie all’ingresso del reparto. È da poco terminata una cerimonia in ricordo di un agente, Salvatore Corrias, morto il 20 ottobre scorso in una maniera assurda: schiacciato dal pesante cancello d’ingresso che era andato ad aprire per consentire l’uscita di un’ambulanza. Una delle tante morti bianche che oliano le statistiche ma non fanno notizia, nella loro banalità e ripetitività. Corrias aveva 46 anni, sarà ricordato da una lapide nel giardinetto davanti al reparto. Insieme a lei c’è il primario Patrizio Aloisio, uno dei fondatori di questa struttura che ha due soli simili in Italia: nell’ospedale San Paolo di Milano e nel Belcolle di Viterbo. L’unica, sostanziale differenza è che la Medicina Protetta del Pertini non è integrata nell’ospedale civile ma ne rappresenta un corpo separato, quasi estraneo. È un ospedale-carcere, circondato da alte inferriate e cancelli blindati, inaccessibile, scollegato dagli altri padiglioni: il tunnel che avrebbe dovuto metterlo in comunicazione con l’ospedale civile non è mai stato completato.
La conseguenza più immediata è l’impossibilità di ricoverare i malati più gravi – quelli infettivi in fase acuta o con complicazioni, a rischio di vita o psichiatrici. In caso di emergenza, infatti, è necessario chiedere l’intervento di una delle due ambulanze in dotazione non esclusiva – un servizio privato che costa 70 euro a trasporto. I tempi di attesa, arrotondati dal primario in un «superiori ai dieci minuti», in realtà sono mediamenti di mezzora («ma di recente per un trasporto urgente abbiamo aspettato tre quarti d’ora»). Se si aggiungono i tempi di trasporto verso il Fatebenefratelli, a 11 km di distanza, o al Policlinico, 5 km più in là, diventa evidente il perché un malato in condizioni gravissime qui non può essere ricoverato. Fatta questa premessa, appare evidente che, se Stefano Cucchi fu portato qui, dopo una tappa al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non fu considerato in pericolo di vita. «Se fosse stato un codice rosso non avremmo potuto accettarlo», dice il dottor Fierro.
La dottoressa Corbi non era di turno al momento del ricovero, però ha avuto a che fare con Stefano nei giorni seguenti, ed è stata lei ad annunciare alla famiglia il decesso («quando ho visto che stava per comunicarglielo un agente mi è sembrato doveroso che fosse un medico a farlo, di persona»): «Non era collaborativo, certo. Mangiava poco ed era sicuramente molto magro. Mi aveva detto di essere celiaco e che non poteva mangiare patate e riso. Gli avevo portato la lista degli alimenti consentiti per mostrargli che invece poteva, e alla fine mi aveva detto: allora un po’ di riso in bianco lo mangio. La sera prima del decesso aveva incontrato anche una volontaria di un’associazione che lavora con i detenuti. No, non ci aspettavamo proprio che morisse». E la frattura della terza vertebra sacrale? I lividi sul volto e sul corpo? I periti del tribunale hanno stabilito che possono essere compatibili con una caduta dalle scale, come da versione di polizia, o con un pestaggio, cosa di cui sono certi familiari e amici. I medici che lo hanno avuto in cura non esprimono giudizi, ma lasciano intendere come non sia un caso raro che persone fermate «in flagranza di reato» arrivino malconce nel reparto di Medicina Protetta, magari perché neutralizzate in maniera «energica» o portate via con la forza dopo una colluttazione con gli agenti. Questo particolare potrebbe essere alla base del mancato stupore dei sanitari per come arrivò conciato Stefano Cucchi.

«Non sono Mengele»

Mi rendo conto che i medici e gli infermieri del reparto Medicina Protetta del Pertini si portano dentro un peso che è come un macigno. Non tanto per la condanna, quella negligenza e quegli errori che hanno fatto propendere i giudici di primo grado per l’omicidio colposo, quanto per l’onta del sospetto di esser stati conniventi con un meccanismo repressivo che ha annientato il povero Cucchi, per la semplificazione mediatica e un po’ populista che ha costruito attorno a loro la figura del “mostro”. Non da ultimo, per la sensazione di esser diventati dei capri espiatori: unici colpevoli in un processo che non è riuscito a venire a capo di nulla. Com’è morto Stefano Cucchi? È stato picchiato dopo il fermo? E, se sì, da chi, dove e quando? Cos’è accaduto in quella settimana di passione in cui il giovane di Torpignattara ha girovagato per caserme, carceri, pronto soccorso e ospedali? Ci sono state reticenze e omissioni oltre che negligenze, qualcuno non ha fatto il suo dovere fino in fondo? Ilaria Cucchi, sorella del giovane deceduto, ha detto a caldo dopo la sentenza, senza attendere le motivazioni: «È stato un processo a Stefano, alla sua magrezza e alle sue scelte». Poi, rivolta ai dottori: «Ne risponderanno alla propria coscienza». L’Anaao Assomed, associazione di rappresentanza dei medici, non ha avuto dubbi nel prendere le difese dei condannati: «Sono un capro espiatorio, le loro condanne sono un alibi per lo Stato».
A loro dire, la vicenda di Cucchi ha distrutto il reparto. Ne ha minato la serenità lavorativa, smembrato il gruppo di lavoro. «Da quando abbiamo aperto, nel 2005, qui sono state curate 2.700 persone e, né prima né dopo quel tragico episodio, ci sono state morti sospette o casi di malasanità», racconta il primario. La gran parte dei ricoveri avviene per problemi cardiologici o ortopedici. Molti pazienti, pur se in giovane età, sono segnati dalla vita che conducono, e il loro stato generale di salute ovviamente ne risente. Il dottor Aloisio mostra pochi dubbi: «Il 40 per cento delle persone che vengono ricoverate qui sono in attesa di giudizio, di regola si tratta di tossici, ladri di polli e immigrati clandestini. Basterebbe abolire tre leggi per deflazionare le carceri e pure questo reparto». Tre leggi: la Bossi-Fini per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva.
Al giornalista non è consentita la possibilità di parlare con nessun detenuto, né al fotografo di immortalarli, anche per ovvie ragioni di privacy. Affisse alle pareti ci sono alcune lettere: fogli di quaderno vergati a penna da pazienti che esprimono riconoscenza e gratitudine nei confronti di medici e infermieri. Altre sono conservate in un cassetto. «Sono stato ricoverato nel luglio del 2009, quindi in tempi non sospetti, prima della morte del povero Cucchi. Entrando la prima cosa che mi ha colpito è stata la pulizia e l’igiene sia della sezione sia della stanza-cella dove venni ubicato, pensavo che mi avrebbero visitato l’indomani ma dopo poco si presentarono medici e paramedici, con cortesia si sono qualificati lasciandomi di stucco per la gentilezza con cui mi trattavano», scrive un ergastolano.
Tutto il personale civile ci tiene a ribadire la loro distinzione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: «Noi siamo medici, non chiediamo a nessuno di quelli che vengono ricoverati il fascicolo penitenziario, per noi sono persone da curare e basta. In passato abbiamo avuto delle liti terrificanti con la polizia penitenziaria, proprio perché consideravano il paziente come un detenuto». Rifiutano in toto il «teorema» secondo il quale loro avrebbero potuto essere l’ultimo anello di una catena repressiva che ha portato alla morte di Cucchi. Il problema è a monte e non dipende da loro. La struttura è stata costruita con una filosofia «punitiva»: ci sono le sbarre e i bracci come in un qualsiasi carcere, dunque regnano le logiche focaultiane del «sorvegliare e punire». «È assurdo che i malati vengano ricoverati in isolamento», dicono i medici, che sostengono di aver perso «la battaglia per avere le porte sempre aperte e consentire ai malati detenuti di potere uscire almeno nel corridoio». Per questo spesso i detenuti firmano per farsi dimettere dall’ospedale e tornare in carcere. Preferiscono la calca da suk nelle ore di punta alla solitudine alienante di una asettica cameretta blindata.

«Perché avremmo dovuto accanirci proprio con il povero Stefano Cucchi? Per ogni medico la morte di un malato è una sconfitta», dice Aloisio, che in realtà a quel tempo non era lì e con il caso Cucchi non ha nulla a che vedere. Il primario era il dottor Aldo Fierro. Anche lui è fra i condannati e, come gli altri, non entra nel merito della sentenza e neppure la contesta: per quello ci saranno gli altri gradi di giudizio. Chiede solo che gli venga restituito l’onore perduto: «Quello che ci offende è il fattore umano: non vogliamo essere considerati dei delinquenti che si sono accordati per uccidere qualcuno. Nessuno di noi è Mengele», dice infervorandosi. Poi prosegue: «Questa struttura è stata totalmente destabilizzata, ma ciò pare non interessi a nessuno. Solo il carcere di Rebibbia è il più grande d’Europa. Se dovesse essere chiusa, i detenuti romani dove andrebbero a finire?».

Un’ulteriore domanda meriterebbe una risposta: si riuscirebbero a evitare altre morti come quella di Stefano Cucchi?