Scomparsi in un carcere turco e deportati, passando per un Cie circondati da bandiere europee e insetti. Pietro e Claudio hanno vissuto in prima persona la gestione dell’emergenza rifugiati appaltata dall’Europa alla Turchia «paese sicuro» e la guerra al popolo kurdo.

Il quadro che emerge è drammatico, aggravato dallo stato di emergenza imposto al paese dopo il tentato golpe. La conseguenza, dice al manifesto Pietro Pasculli, è concreta: l’autorità non è più in capo alla magistratura, ma alla polizia.

«Con Claudio Tamagnini siamo arrivati in Turchia il 22 luglio. Volevamo testimoniare il conflitto in Kurdistan, raccogliere le storie delle famiglie». Prima tappa Diyarbakir, ospiti del Mesopotamia Ecological Movement.

«Abbiamo fatto un giro nel distretto di Lice, nelle montagne a sud di Diyarbakir, dove la questione ambientale è centrale: da un anno i villaggi sono vittima di raid dell’esercito turco. Le bombe incendiarie devastano campi, boschi e foreste e i residenti vengono cacciati dai soldati con la scusa di dare la caccia ai guerriglieri del Pkk. Quando hanno la possibilità di tornare, trovano campi devastati e case danneggiate. Abbiamo assistito noi stessi a bombardamenti sul villaggio accanto al nostro: la foresta ha preso fuoco».

Seconda tappa è Nusaybin, città a pochi chilometri dalla Siria. Si specchia con Qamishli, teatro di un terribile attacco dell’Isis a fine luglio, 44 morti. «Siamo arrivati il 28 luglio nell’idea di procedere verso Cizre e poi verso il confine con l’Iraq – prosegue Pietro – A noi si era unita una ragazza tedesca. Una città devastata da 130 giorni di coprifuoco, limitato alle sole ore notturne appena due giorni prima. Nessuno straniero era ancora entrato, gli stessi sfollati tornavano in quei giorni».

Al checkpoint all’ingresso la polizia li fa passare. Di fronte, gli effetti della guerra: macerie ovunque, quartieri scomparsi, racconti di ordigni lasciati nelle case ed esplosi al rientro dei proprietari. Qui, racconta Pietro, da metà marzo si era concentrata la resistenza del Pkk, dopo Cizre e Sur. A giugno, per evitare altre sofferenze ai civili, i combattenti si sono ritirati. Ma coprifuoco e raid non sono cessati.

I tre si spostano nella zona sud di Nusaybin, quella che guarda Qamishli. Pochi minuti e una camionetta della polizia li avvicina: «Ci portano in questura e perquisiscono tutto quello che abbiamo, compresi telefoni, e pc. Avevo un diario, lo avevo chiamato ‘Kurdistan diary’. Il mio primo crimine».

E scatta il ricatto: dateci i nomi di chi avete incontrato e vi lasciamo liberi. I tre ragazzi si rifiutano: «Iniziano le domande, per 6 ore. Un interrogatorio politico: chiedevano di Ocalan, Erdogan e Gülen. Alle 23 ci portano nelle prigioni sotterranee, in celle d’isolamento. Ci fanno firmare due moduli: nel primo dichiaravamo di essere in arresto, con il secondo si svela l’accusa: appartenenza ad un’organizzazione terrorista e spionaggio internazionale».

In cella Pietro, Claudio e la ragazza tedesca restano tre giorni. Il quarto si apre il processo sulla base di un dossier di ben 100 pagine: «Una farsa: non c’era traduzione, parlavano in turco e il nostro avvocato, kurdo, non ha avuto la possibilità di incontrarci prima». Ma il giudice li libera: accuse cancellate. E qui scattano le leggi speciali, la magistratura soverchiata dalla polizia: poche ore dopo il rilascio, mentre tentavano di acquistare in hotel un volo per l’Italia, la polizia fa irruzione e li arresta di nuovo.

Stavolta niente carcere, ma il centro di espulsione di Adana, etichettato in Turchia come «centro di rimozione», sotto il controllo del Ministero degli Interni e quindi della polizia: «Ci portano ad Adana, dove avremmo dovuto prendere un volo per Istanbul e poi per Roma, tutto a spese nostre compreso il per diem dei poliziotti che ci avrebbero accompagnato – continua Pietro – Nel Cie restiamo altri tre giorni, senza possibilità di comunicare con l’esterno. Celle affollatissime (tanti i rifugiati siriani e afgani), sporcizia, insetti, materassi sudici, cibo avariato: in molti si sono sentiti male. Eppure fuori vedevamo sventolare le bandiere europee e furgoni nuovi di zecca con su il logo Ue: forse tutto finanziato con il denaro che gli stiamo inviando». Infine la deportazione dalla Turchia «paese sicuro».