Almeno per qualche giorno, prima che venisse fuori il contesto un po’ provinciale della vicenda, il caso dell’utente Twitter conosciuta come Beatrice Di Maio aveva proiettato sulla campagna referendaria italiana storie di cospirazioni telematiche e manovre occulte che rimandavano ai recenti scenari statunitensi. L’account dal quale partivano con discreta regolarità messaggi irriverenti, quando non proprio insulti, contro il governo Renzi e il presidente Mattarella era davvero l’apice di una «macchina del fango 2.0» manovrata dalla Casaleggio Associati?

Era bastato che il sottosegretario alla presidenza del consiglio Luca Lotti portasse i tweet ritenuti diffamatori in procura e che venisse aperto un fascicolo per scatenare ipotesi da spy story. Un’inchiesta comparsa su La Stampa aveva addirittura ipotizzato che Beatrice Di Maio fosse il nodo di una «struttura» riconducibile al M5S, pensata per agire sui social network e condurre una specie di guerra sporca mediatica.

Già nei giorni scorsi, qualcuno più avvezzo alla network analysis aveva notato che, al di là di concetti roboanti e delle suggestive elaborazioni animate reperibili con un semplice software disponibile online, l’esame dei flussi di contatti di Beatrice Di Maio descriveva la normale attività di un utente social mediamente attivo, fatta di relazioni fugaci e cerchie più consolidate. Ieri è arrivata la rivelazione: la misteriosa utente si è tolta la maschera e ha rivelato a Franco Bechis, su Libero, la sua identità: Beatrice Di Maio è Titti Giovannoni Ottaviani, moglie dell’ex ministro berlusconiano e attuale capogruppo alla Camera di Forza Italia Renato Brunetta.
La storia di Di Maio-Brunetta descrive il paesaggio perché è più semplice e lineare di qualsiasi retroscena: una signora saldamente ancorata alla cultura di destra di questo paese produce contenuti virali che vengono diffusi da personaggi legati alla galassia grillina. Ecco perché dal sito di Grillo all’indomani dell’inchiesta avevano difeso quei contenuti e sostenuto il «diritto di satira». Ieri, i toni sono cambiati: «Tutti a parlare di fake news e di come la gente sui social sia stupida e creda a tutto. Ma vi siete visti? – chiede Grillo – Vi siete bevuti la fake news della Stampa come i bambini che credono a Babbo Natale. Ci aspettiamo le scuse di tutti. Tutti. Questa campagna diffamatoria deve finire».

Cade, dunque, ma sempre ad opera di un odiato giornalista, l’ipotesi del Twittergate pentastellato. Chi ipotizza che negli uffici della Casaleggio ci sia una stanza dei bottoni telematica in grado di indirizzare le emozioni del «popolo della Rete» ripropone una storia che circola da quando il M5S ha mosso i primi passi. È una leggenda probabilmente gonfiata anche dai dipendenti della società milanese che gestisce il sito di Grillo, una specie di mito fondativo che ha preso le mosse dalla sopravvalutazione delle capacità strategiche di Gianroberto Casaleggio: il comunicare aforistico, le visioni apocalittiche che mescolano citazioni dai blockbuster della fantascienza a lezioncine di marketing aziendale hanno avuto buon gioco in un paese che non ha una solida cultura critica digitale. Casaleggio sapeva che in rete esistono gerarchie di potere, che non vige la democrazia assoluta e che il capitale di notorietà acquisito da Grillo in tv sarebbe stato un vettore per la diffusione sul nuovo media del messaggio pentastellato. Probabilmente non ha lesinato di utilizzare qualche influencer e di perimetrare gli spazi del dibattito sul blog di Grillo (spesso cancellando commenti scomodi).

Da qui a immaginare uno spazio digitale eterodiretto ce ne corre. Soprattutto, si rischia di sottovalutare l’analisi dei contenuti alla ricerca di improbabili pistole fumanti, per di più indagando su di un M5S che macina consensi sulle ceneri della politica ma che ha mostrato una certa fatica proprio quando si trattava di sviluppare strumenti di partecipazione online. Si veda il flop dei votanti sul portale o il funzionamento della claudicante piattaforma Rousseau.