Mentirei, prima di tutto a me stesso, se non provassi oggi a dire qualcosa della improvvisa scomparsa di un’amica. Questo pensiero infatti si mangia quasi tutti gli altri.

Rosetta era e resta Stella, di nome e di fatto. Splendente e divorante.

Lo faccio quindi cercando – per prudenza? – di mantenere una distanza, approfittando dell’impegno che si ripete qui di isolare una parola.

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Un ritratto di Rosetta Stella (foto di Nazario Dal Poz)

Me la suggerisce un suo testo pubblicato da questo giornale, insieme ai ricordi di Bia Sarasini e Laura Fortini. Una lettera immaginaria a Alice Ceresa, in cui si parla del bisogno degli esseri umani di «dare un nome, un senso, un significato a ciò che eccede la pura materialità, e questo è vero tanto quando parli di Dio che quando parli dell’anima».

Vorrei discutere di quanto sia necessario non rimuovere la ricerca su questa eccedenza, e nello stesso tempo del rischio che inevitabilmente si corre dell’eccesso.

Materia di confronto negli incontri della «scuoletta per un uso politico della teologia». La prima lezione ci aveva messo di fronte a quanto di più eccessivo sia stato pensato e detto. La frase di Gesù, ama il tuo nemico. Non certo per caso il discorso era stato poi condotto su qualcosa di apparentemente molto distante, cioè su come cambia le nostre vite la libertà femminile. Il fatto che con essa viene meno quell’amore oblativo delle donne verso gli uomini, i quali non hanno ancora saputo reagire adeguatamente a questo imprevedibile eccesso. Rosetta era preoccupata di questo fatto.

Lo dico perché l’esistenza di questa preoccupazione femminile, non solo sua, dovrebbe indurci – indurre noi uomini – a uscire da un certo torpore, se non peggio, e a rischiare qualcosa in più: tanto quel che è perso non sarà riguadagnato. E poi sono convinto che non fosse un vero guadagno.

Un uomo che le vuole bene e che l’ha ricordata in Chiesa, il vescovo Agostino Marchetto, ha detto che era femminista – una femminista «sui generis» – e quasi teologa. Non ho colto in quel quasi un significato riduttivo, anche perché è stato aggiunto che quella parola significa anche la sua libertà.

Mi è venuto in mente il quasi-niente così centrale nel pensiero di un filosofo che ama molto la musica, Vladimir Jankélévic.

«Gli uomini – dice rispondendo a una domanda di Béatrice Berlowitz (nel libro Da qualche parte nell’incompiuto, Einaudi) – non possono parlare tutti insieme, è necessario, perché uno scambio sia possibile, che le loro parole restino in attesa le une delle altre e si confrontino in dialogo… Ma gli uomini possono cantare insieme; l’armonia associa a suo piacere le voci e i timbri degli strumenti, perché lo spessore della polifonia conduce, senza che stridano, diverse linee di senso generando un contrappunto all’infinito tra l’una e l’altra».

Io ho cercato di emettere un’unica nota, accompagnando un bellissimo Kyrie di origine popolare cantato da Lucia con voce alta e intonatissima. È l’unica comunione, credo, di cui sono capace.

Da vecchio razionalista, sia pure un po’ sentimentale, continuo a immaginare che sia possibile agli uomini – in particolare ai maschi – ogni tanto provare a fermarsi, fare silenzio, e ascoltare le parole degli altri e delle altre.

In armonia un accordo eccedente produce un suono che vuole trasportare la musica, e noi con lei, irresistibilmente da qualche altra parte. È sufficiente aumentare una nota dell’intervallo più piccolo per produrre l’attesa di qualcosa che resta per quell’attimo di silenzio un desiderabile imprevisto.