All’inizio di questa storia, il maestro di un piccolo villaggio situato nella parte settentrionale della Repubblica Democratica del Congo accusò i sintomi di quella che venne erroneamente diagnosticata come una reinsorgenza di malaria. Fu il suo ricovero presso la missione cattolica di Yambuku a causare la prima epidemia ufficiale di Ebola, un virus che ancora oggi intrattiene con l’inadeguatezza delle strutture deputate a fronteggiarlo un rapporto peculiare.

Allora, se non altro, i ricercatori furono presi alla sprovvista, procurando alla totale mancanza di un personal protective equipment le circostanze attenuanti dell’impreparazione, ma quando il sangue infetto giunse nei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie della Georgia, si comprese che la suora olandese alla quale era stato prelevato, era morta di un virus che si trasmetteva attraverso i fluidi corporei. Come se quella scoperta non fosse mai avvenuta, però, negli ospedali in cui oggi vanno a morire le popolazioni contagiate manca ogni cosa, a partire dalle misure più elementari di profilassi come i guanti monouso o le mascherine. Ed per questo che nella febbre emorragica possiamo cogliere anche il sintomo di una patologia sistemica e politicamente determinata, perché sono tutte interne ai processi di decolonizzazione le cause che trasformano i luoghi di cura in centri di propagazione.

Nell’autunno del 1976, quindi, l’Organizzazione Mondiale della Sanità si impegnò a formare una équipe di intervento internazionale che attenuasse l’incidenza dei tagli alla spesa pubblica imposti da Bretton Woods sulla diffusione del contagio, ma non se ne fece nulla. L’industria farmaceutica, nel frattempo, stabiliva che gli investimenti sulla ricerca per il trattamento di una malattia così sporadica e africana non valessero la candela, ma qualcuno non si rassegnò all’impotenza. Quattro anni fa, infatti, il Dipartimento della Difesa americana ha stipulato un contratto da 140 milioni di dollari con la Tekmira Pharmaceuticals che si è recentemente tradotto nella guarigione di alcune scimmie affette da una variante eccezionalmente aggressiva di Marburg, un parente stretto di Ebola. E all’inizio di agosto, in piena emergenza umanitaria, la Food and Drug Administration ha concesso il nullaosta per la sperimentazione limitata del farmaco sugli esseri umani, assicurando agli azionisti della Tekmira un rialzo del 40% sulle loro puntate. Le applicazioni militari, ancora una volta, hanno garantito alla ricerca un sostegno economico che il primum vivere delle popolazioni in pericolo non risulta minimamente in grado di aggiudicarsi.

Quello a cui sembra di assistere oggi, anzi, è il rovesciamento del sogno panafricano nell’incubo di una quarantena continentale e le reazioni del mondo alla diffusione di Ebola si direbbero addirittura pavloviane. Solo in virtù di uno slittamento dell’uomo indifferentemente nero nell’uomo infetto si possono comprendere i comportamenti della delegazione brasiliana che ha annullato il viaggio in Namibia, della compagnia di bandiera coreana che ha sospeso le partenze per il Kenia o degli assicuratori tailandesi che si sono rifiutati di volare in Sudafrica. Perché il Sudafrica dista quasi 5000 chilometri dal contagio più vicino, che fatte le dovute proporzioni sarebbe un po’ come cercare il Duomo di Modena in centro a Kabul. Ed è con il supporto di questo razzismo atmosferico che Beppe Grillo ha potuto lanciare l’allarme della tubercolosi, andandosi a procacciare il consenso in quello che Michel Foucault avrebbe probabilmente definito un altro «sogno politico della peste».

Un sogno che non si limita a postulare l’indistinzione tra i singoli paesi del continente nero, che rimangono pur sempre 54, ma la pone al centro di una più elaborata strategia di frammentazione geopolitica e sociale. Perché il rischio del contagio, come aveva segnalato Gustave Le Bon, rientra a pieno titolo nella rubrica dei fenomeni che annientano qualunque differenza «tra un celebre matematico e il suo calzolaio», assimilando la Nigeria alla Somalia e pregiudicando qualsiasi spirito di appartenenza, vuoi anche di classe. E tutto questo in una regione fortemente interessata dalle campagne predatorie dell’economia globale, come dimostrerebbe il caso paradigmatico del paziente zero, il bambino di due anni che avrebbe trasformato un piccolo villaggio al confine tra le repubbliche di Guinea, Sierra Leone e Liberia nell’epicentro dell’epidemia.

I ricercatori concordano infatti nel supporre che a determinare la prima trasmissione possa essere intervenuto il fenomeno del cosiddetto bushmeat (o viande de brousse), che consiste nell’uso incautamente alimentare degli animali selvatici. L’ospite naturale di Ebola (il pipistrello) lo trasmetterebbe quindi ai topi, le scimmie o le antilopi di cui si cibano gli esseri umani quando non vengono socialmente integrati nelle produzioni internazionali di riso, caffè, noci e olio di palma che hanno soppiantato le loro economie di sussistenza. Ce ne sarebbe abbastanza per inneggiare alla rivolta, insomma, ma è proprio in questo scenario che la paura del contagio restaura il rapporto esclusivo che ha sempre vincolato l’homo homini lupus alle disposizioni del Leviatano.

L’emergenza del virus rompe qualsiasi legame, anche i più intimi, come quello dei becchini con i familiari che li ripudiano. E una volta isolati, agli individui viene a mancare la forza sociale che attenuava la pressione degli accordi economici sulle loro vite. Ora devono soltanto obbedire, barattare libertà in cambio di protezione, legittimando l’esercizio di un potere pressoché indisturbato ma pubblicamente auspicabile. Così, nei giorni scorsi, l’operatore telefonico Orange ha accettato «a titolo eccezionale» di condividere i dati relativi alla georeferenziazione di 150.000 abbonati senegalesi, dopo che nel 2012 si era già rassegnato a contemplare la medesima eccezione per la Costa d’Avorio.

Questi dati serviranno senz’altro per compiere un passo avanti nella ricerca, ma confermano al tempo stesso la tendenza del virus a ricreare l’ambiente più congeniale alla restaurazione di un potere privo di ostacoli, diretto come una telefonata e sintomatico dei rapporti che intercorrono tra l’azione dei governi tecnici, le ragioni del business e l’egemonia populista.