A un anno dalla sua comparsa, l’epidemia di Ebola si configura come una potente metafora della situazione dell’Africa occidentale e delle sue relazioni geopolitiche con l’Occidente. Per cominciare è bene dare alcuni dati quantitativi: ad oggi i Paesi colpiti risultano essere otto e precisamente Guinea, Libera, Sierra leone in primis con il 95% dei casi e, in subordine, il Senegal, il Mali, la Spagna, la Nigeria e gli Usa con poche unità a testa.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) i casi conclamati dall’inizio dell’epidemia sono stati 19.497 con 7.588 decessi, poco meno della metà.

Il primo dato interessante è come sta cambiando la modalità del contagio: il morbo si è spostato dalle grandi città ai piccoli centri rurali di un’area vasta che copre tutte le nazioni maggiormente interessate, rendendo l’attuale geografia del virus simile a un mantello di leopardo, dunque più difficile da trattare con le strategie sinora attuate, che prevedevano di concentrare in pochi grandi centri attrezzati i pazienti prevalentemente urbani. Questa evidenza epidemiologica porta a una considerazione di fondo: i fenomeni migratori interstatuali rappresentano una evenienza assolutamente incontrollabile e dunque, per adattare le strategie di cura e prevenzione, bisogna anzitutto tenere in conto le usanze e le parentele tribali che spesso vanno oltre le frontiere stabilite dalle antiche potenze coloniali: in altre parole la mobilità umana è in costante aumento e le strategie sanitarie ne devono tenere conto come fattore imprescindibile e non modificabile. Le malattie non possono essere fermate in nessun modo efficace se non prevenendole.

La seconda lezione da trarre dall’evoluzione epidemiologica di Ebola è la sua modalità di trasmissione: originariamente malattia animale, ha finito per trasmettersi in maniera così massiccia all’uomo attraverso una continua manomissione dell’ambiente, in particolare con l’avvicinamento di habitat una volta relativamente lontani tra di loro e che dunque tenevano il morbo confinato in certi ambiti. La continua deforestazione operata in questi Paesi per sfruttarne le risorse ha, infatti, ristretto drammaticamente l’habitat naturale degli animali selvatici che si sono vieppiù avvicinati alle città portando le fonti di contagio a ridosso di centri la cui densità abitativa, per gli stessi motivi di sfruttamento intensivo dell’entroterra e di conseguente impoverimento delle popolazioni rurali, si è accresciuta a dismisura. Dunque fenomeni pregressi e generalizzati hanno favorito sia la nascita che il propagarsi di una malattia che, in origine, restava confinata all’interno di piccoli villaggi e non aveva possibilità di espandersi.

Un secondo livello di fattori favorenti, e dunque di concause che devono far riflettere sulla messa in campo delle strategie migliori per prevenire e curare questo tipo di malattia, è rappresentato dalla debolezza dei sistemi sanitari nazioni dei Paesi maggiormente colpiti. La lunga guerra civile in Sierra Leone e la instabilità permanente in Nigeria, e Guinea, rappresentano fattori aggravanti l’epidemia. In Sierra Leone, un anno fa, il personale medico ammontava a circa una cinquantina di medici e un numero poco superiore di infermieri su una popolazione di sei milioni di abitanti. Ma al di là delle quantità di personale, gran parte del quale morto a causa di Ebola, è la qualità del servizio che fa riflettere. Cioè un progressivo smantellamento della sanità pubblica, dei piccoli centri sanitari rurali, un mancanza totale di pratiche relative all’educazione igienico sanitaria di base a favore della sanità privata per chi può pagare e delle pratiche tradizionali degenerate per tutti gli altri, che ha finito per generare una disaffezione se non una ostilità palese della popolazione verso ciò che rimaneva del sistema di salute.

Altro fattore rilevante la modalità con la quale l’Occidente ha risposto alla prima fase dell’epidemia, certamente con gravi ritardi e dando l’idea che ciò che veniva fatto era in chiave di cordone sanitario, più per contenere il morbo nei suoi confini che per debellarlo in favore delle popolazioni locali. Basti dire che ad oggi i grandi centri costruiti dall’Esercito americano in Sierra Leone, la nazione più colpita, sono praticamente deserti, dato che le pratiche vigenti isolano non solo il paziente infetto dalla sua famiglia, ma finiscono per isolare il centro stesso da tutta la popolazione. Esistono evidentemente fattori culturali potenti, che gli anni del colonialismo non solo non hanno modificato, ma hanno reso ancora più identitari, e che contribuiscono fortemente a che questi centri non vengano vissuti come soluzione ma come parte del problema. In altre parole le pratiche legate ai funerali e al trattamento del defunto non sono ancora state tarate al livello giusto, tanto da ripensare l’approccio isolazionista e permettere, anche nel rispetto dell’isolamento, una certo scambio tra malato e parenti, specie per quello che concerne i bambini, la vicinanza ai quali rappresenta un fortissimo fattore di guarigione.

Da tutti questi aspetti si possono però cominciare a trarre alcune lezioni da applicare all’immediato futuro: prima di tutto spostare in periferia la costruzione dei centri e farne di più piccoli e più distribuiti sul territorio. Secondo riprendere in maniera massiccia le pratiche di educazione sanitaria: se un fattore si è dimostrato capitale nel bloccare, almeno in parte, l’epidemia, è stato quello delle pratiche igieniche di base, dal semplice lavaggio delle mani alla manipolazione corretta delle deiscenze corporee, gesti che erano la base del famoso slogan « Salute per tutti entro l’anno 2000» lanciato dall’Oms alla conferenza di Alma Ata nel lontanissimo 1975 e poi lasciato cadere per l’opposizione delle multinazionali del farmaco.

Terzo, l’attenzione alle culture locali, alle pratiche di ascolto e coinvolgimento delle popolazioni, da trattare come agenti attivi della loro stessa salute e non solo come potenziali pazienti infetti. Ultimo, ma non per importanza, il ristabilimento di habitat convenienti per le popolazioni rurali, e dunque una decisa sterzata verso la centralità dell’agricoltura e non solo come sussistenza ma come stile di vita sostenibile, come pure uno stop deciso alle pratiche di sfruttamento intensivo delle foreste. Se sapremo trarre dall’epidemia di Ebola queste lezioni, forse le morti che già ci sono state e quelle che ancora verranno, non saranno state vane.
*Terre des Hommes