Con un tragico bollettino che si ripete da mesi, a fine ottobre, l’organizzazione Mondiale della Sanità ha reso pubbliche le statistiche sull’avanzare di Ebola in Guinea-Conakry, Sierra Leone e soprattutto Liberia, il paese più colpito dalla malattia, con quasi la metà dei casi accertati. Da quando i primi dati sono stati diffusi, in quest’ampia regione africana, il virus ha causato il decesso di circa 5 mila persone, sulle 10 mila infettate (altre fonti parlano di un tasso di mortalità che si approssimerebbe al 70%).

La forza con cui Ebola miete vittime in Africa – dove il virus, uno dei più implacabili del pianeta, è conosciuto dal 1976 – dipende anche dallo stato di salute generale della popolazione, fattore che incide sulla capacità dell’organismo di reagire all’attacco patologico, quando Ebola invade il sangue e le cellule. Di fronte all’epidemia, che minaccia ora aree confinanti come Mali (3 vittime accertata), Senegal e Costa d’Avorio, dopo aver sfiorato la Nigeria (8 morti su una ventina di casi), due elementi sono oggetto di grande sconcerto: l’attitudine delle comunità locali, dove ancora vi è chi non crede all’esistenza della febbre emorragica, e la passività delle istituzioni sanitarie dell’Africa occidentale.

I sistemi sociosanitari si sono rivelati drammaticamente impreparati ad educare la gente al problema e a divulgare un’informazione di base semplice ma corretta, lasciando libero corso alle voci più assurde. In Guinea, molti restano convinti che sarebbero i medici e gli infermieri stessi a propagare la malattia con le loro iniezioni; i centri, dove vengono isolati i pazienti o sono messi in quarantena i casi sospetti, non curerebbero le persone ma ne provocherebbero la morte; le case sottoposte a disinfezione, verrebbero in realtà contaminate con polveri nocive (GuineeNews, 28-10-14). A Koidu, cittadina mineraria nell’est della Sierra Leone, le autorità hanno dovuto di recente imporre il coprifuoco, dopo che alcuni giovani avevano attaccato gli operatori sanitari venuti a fare i test per capire se un’anziana donna, moglie del capo-villaggio, era stata infettata; bilancio dei disordini: due morti “collaterali”. Come spiega Guineeconakry.info (23-10-14), al di là della malattia, le violenze sono la conseguenza di un’incomprensione fra il discorso medico di tipo occidentale e i costumi delle popolazioni autoctone; spesso poi il lavoro di sensibilizzazione è svolto da figure incompetenti.

Ma non basta. L’epidemia sta mutando i comportamenti sociali e la paura genera ostracismo. Negli orfanotrofi di Monrovia, capitale della Liberia, che un tempo accoglievano i bambini privi di famiglia in seguito alla guerra civile, oggi si trovano i figli delle vittime della febbre emorragica o i piccoli sopravvissuti al contagio; nessuno li vuole più e sono sospettati di essere stregoni in erba, capaci di lanciare sortilegi, dopo essere stati loro stessi sottoposti a malefici (France culture, 29-9-14).

Svariati esempi mostrano come il persistere di uno scarto insormontabile – fra il linguaggio astruso della scienza e l’esigenza della gente di dare un senso alla malattia – riduce l’intervento clinico delle autorità ad un “teatro dell’incoerenza”, dove la parola dei terapeuti e quella dei pazienti non sfruttano i medesimi registri. Questi ultimi avrebbero bisogno di comprendere Ebola sia a livello cognitivo (collocandola nell’ordine delle cose, cioè nel quadro della loro visione del mondo), sia a livello concreto (per rimediarvi o prevenirla), ma non ne hanno a volte l’opportunità.

L’altra questione sul tappeto concerne l’inefficace gestione della crisi da parte delle istituzioni del continente, in primis l’Organisation Ouest-Africaine de la Santé (Ooas), la Communauté Economique des Etats de l’Afrique Occidentale (Cedeao) e l’Union Africaine (Ua).

Il 21 ottobre scorso, a Dakar, Fatou Francesca Mbow, medico e consulente umanitario, con Olakounlé Gilles Yabi, analista politico, ha scritto una lettera aperta ai responsabili dell’Ooas, per denunciarne l’azione quasi fallimentare. Il silenzio, la passività e il rimando costante ad altre strutture internazionali, quali l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), hanno caratterizzato l’attitudine dei massimi dirigenti dell’ente sanitario. Le politiche d’intervento sono state delegate a ong come Médecins Sans Frontières, mentre le istituzioni africane non hanno saputo mobilitare né competenze né fondi per sconfiggere a tempo l’epidemia. La lettera ha suscitato un forte dibattito e molti africani, in patria come nella diaspora, si sono sentiti abbandonati dai loro dirigenti, al punto da provare un senso di umiliazione per l’immagine che il loro continente ha offerto. Insomma, sul piano formale, gli organismi di ogni genere pullulano, ma purtroppo, in più casi, si tratta di scatole vuote.