Ebola è tornato. Il nuovo focolaio epidemico stavolta è nella Repubblica Democratica del Congo. I casi finora sono stati 63, di cui 27 mortali secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). I primi si sono manifestati nelle province rurali di Bikoro e Iboko. Altri si sono ammalati a Mbandaka, una città di un milione e mezzo di abitanti sulle rive del fiume Congo. In un centro urbano così popoloso e attraverso cui viaggiano merci, ma anche persone e virus, mantenere sotto controllo l’epidemia è più difficile. Da Mbandaka, ad esempio, la corrente potrebbe trasportare Ebola alla capitale Kinshasa, in cui vivono circa diciassette milioni di persone.

MOLTI RICORDERANNO con orrore l’ultima epidemia di Ebola, che colpì Liberia, Sierra Leone e Guinea tra il 2013 e il 2016. Fu inizialmente sottovalutata, ma alla fine si contarono oltre undicimila morti su ventottomila persone contagiate. Stavolta, tra gli operatori sanitari si respira un maggiore ottimismo dovuto principalmente a due fattori. Innanzitutto, le autorità nazionali e internazionali hanno risposto prontamente alla nuova emergenza. Inoltre, c’è un vaccino, ancora allo stadio sperimentale ma con dati promettenti sulla sua efficacia (vedi box, ndr). Ma il vaccino non è sufficiente a sconfiggere l’epidemia. Le condizioni socio-economiche dei paesi dell’Africa centrale e le leggi del mercato che regolano le strategie delle case farmaceutiche potrebbero infatti mettersi di traverso al lavoro dei medici.
Il vaccino sperimentale si chiama rVSV-ZEBOV ed è prodotto dalla multinazionale farmaceutica Merck. Non è ancora autorizzato per il commercio ma i test effettuati durante l’epidemia 2013-2016 hanno avuto successo. L’Oms ha portato in Congo circa ottomila dosi del vaccino. L’Alleanza Globale per i Vaccini, un consorzio internazionale di governi e imprese, ne ha già prenotate altre trecentomila.

OLTRE A QUESTO FARMACO, il 7 giugno la Repubblica Democratica del Congo ha approvato la sperimentazione di altri cinque vaccini anti-Ebola, per ora da utilizzare come «terapia compassionevole», cioè quando ogni altra opzione è esclusa. Ma non bastano per tutta la popolazione. Occorre applicare una strategia che ne massimizzi l’efficacia.
Il piano si chiama «vaccinazione a anello» e consiste nel vaccinare per prime le persone entrate in contatto con i malati, e poi i contatti dei contatti. Una strategia del genere richiede un impegno organizzativo notevole. Per ogni paziente, occorre identificare le persone con cui è entrato in contatto, raggiungerle e convincerle a sottoporsi alla procedura di vaccinazione e ai controlli. Le zone rurali del Congo sono quasi inaccessibili per l’assenza di infrastrutture e vie di comunicazione. Questo rende difficile gli spostamenti, l’installazione di ospedali da campo e la collaborazione con la popolazione. Infine, mantenere il vaccino a settanta gradi sottozero, come richiede la sua conservazione, è un’impresa in regioni equatoriali in cui l’elettricità è quasi assente.

NELLE CITTÀ le infrastrutture sono presenti, ma il piano di vaccinazione è complicato dalla difficoltà di ricostruire i contatti delle persone malate, tra autobus affollati e mercati di strada: basta che un individuo a rischio sfugga perché il virus continui a diffondersi. Finora, le persone vaccinate sono state circa duemila nella città di Mbandaka. I risultati sono incoraggianti: nei primi otto giorni di giugno, è stato censito solo un nuovo caso, a Iboko. Il direttore della struttura dell’Oms dedicata alle emergenze sanitarie, l’australiano Peter Salama, si è detto «cautamente ottimista» in una conferenza stampa a Ginevra.

IL SUO OTTIMISMO non è condiviso dall’ex-direttore del Centro statunitense per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie Thomas R. Friedman, che sull’ultimo numero della rivista Science ha messo in guardia chi punta tutto sul vaccino. Friedman ha sottolineato la necessità di coinvolgere le comunità locali. «La mancanza di fiducia tra operatori e comunità ha fatto sì che alcuni pazienti fuggissero dalla quarantena, mentre altri casi e contatti non sono stati individuati», ha scritto.

NON TUTTI I MALATI si adattano all’isolamento dai propri legami sociali, in quelli che potrebbero essere i loro ultimi giorni. In un paese quasi privo di strutture familiari, vengono solitamente accuditi dalle famiglie. Invece, per contenere l’epidemia dovrebbero essere isolati, magari in ospedali fatiscenti. Senza un attivo coinvolgimento delle comunità, a partire dai leader religiosi, il contenimento è difficile. Inoltre, scrive Friedman, i paesi poveri più colpiti hanno bisogno del supporto internazionale. I tagli decisi da Trump al budget statunitense per le emergenze sanitarie globali, una fetta importante delle risorse a disposizione, non potranno che aumentare il rischio di contagio, da cui nessun paese al mondo può dirsi immune. Come ha spiegato alla rivista The Atlantic Monthly Nahid Bhadelia, dottoressa della Boston University che lavorò in Sierra Leone durante la passata epidemia, «anche per febbre gialla e colera c’è un vaccino, ma nonostante questo ci sono ancora violente epidemie», a dimostrazione che occorrono prima di tutto le misure sanitarie di base.

A complicare ulteriormente il quadro ci pensano le case farmaceutiche, restie a investire grandi risorse nella ricerca di un vaccino. Checché ne dicano i grillini al governo, il business dei vaccini non è così allettante. Lo sviluppo costa molto, i farmaci devono essere testati su centinaia di migliaia di persone prima di essere approvati e il loro bacino d’utenza è spesso concentrato in paesi poverissimi, come nel caso di Ebola, che non sono in grado di assicurare una domanda sufficiente. «Il problema – ha scritto sul Bullettin of Atomic Scientist Christopher Brown, esperto di politiche sanitarie alla George Mason University (Virginia) – è la percezione, se non il rischio reale, che le società farmaceutiche guadagnino troppo poco dai propri investimenti proprio nei mercati in cui il vaccino è più necessario».

NON È UN RISCHIO ipotetico: nel 2017 l’azienda Sanofi ha abbandonato lo sviluppo di un vaccino contro il virus Zika perché il prezzo di vendita previsto non avrebbe garantito guadagni. In tutto il mondo, la domanda di vaccini contro le malattie rare è alimentata dai governi interessati, come avvenne per il vaccino contro l’antrace comprato a milioni di dosi dal governo Usa per finalità anti-terroristiche. Nel caso di Ebola, l’unico mercato è garantito dalle iniziative filantropiche.
Infine, la sperimentazione di un farmaco anti-Ebola è ostacolata dalle stesse procedure di approvazione sanitaria. Per verificarne l’efficacia è necessario un numero sufficiente di pazienti. Per i test è necessario che sia in corso un’epidemia. Ma occorre anche un gruppo di pazienti a cui somministrare un placebo come termine di paragone, all’insaputa sia dei pazienti che dei medici. È etico, o ragionevole, somministrare un placebo a persone potenzialmente esposte a un virus letale mentre è in corso un’epidemia che richiede di seguire ogni singolo caso? Medici senza Frontiere, una delle organizzazioni più impegnate sul terreno, nel 2014 si oppose. Ma questo rallenta l’approvazione del vaccino Merck, ancora in fase di sperimentazione nonostante sia noto dai primi anni 2000.