Sullo sfondo di un teatro di macerie in cui si fa strada un convoglio militare Usa, nel mirino di Bradley Cooper appaiono una donna in burka nero e un bambino. Si scambiano un oggetto che potrebbe essere una granata. Premere o no il grilletto? Fin dai primi stacchi, American Sniper «è» la guerra, una realtà che Clint Eastwood ha visitato più volte, sia come attore che come regista (Gunny, Flags of Our Fathers, Lettere da Iwo Jima..) e sulla cui inutilità il suo occhio non ha mai equivocato. La stessa implacabile chiarezza illumina questo suo ultimo lavoro, uscito il giorno di Natale a New York, Los Angeles e Dallas (con un record d’incassi per la distribuzione sotto le dieci sale) e adesso anche in Italia. Dal dilemma di Cooper, con cui si apre il film, grazie a un salto indietro nel tempo, la luce grigia, dolorosa, di un campo di battaglia in Iraq diventa quella dorata di un bosco del Texas. Dall’altra parte del mirino, adesso, è un cervo, a tenere in mano il fucile è un bambino. L’animale si accascia senza un emettere suono. E quando il bimbo, eccitatissimo, molla il fucile nell’erba e corre verso la preda, suo padre lo riprende con durezza: l’arma è una cosa da cui non ci si separa mai.

L’arma, la pistola in particolare, è stata uno dei temi centrali della poetica eastwoodiana, fin dall’inizio. Nell’epilogo del suo magnifico Gran Torino (2008), Eastwood aveva trasformato la 44 Magnum dell’ispettore Callahan in un dito puntato. Qui l’arma ritorna un oggetto reale, di morte. Non poteva essere altrimenti, dato che American Sniper è la storia di uno dei più famosi cecchini made in Usa. Nativo della texana Odessa, entrato in Marina nel 1999, nell’arco dei suoi quattro turni in Iraq come tiratore scelto del corpo speciale del SEALS, Chris Kyle si era distinto per efficacia: 160 morti confermate al suo attivo, su 255 probabili. Il suo proiettile più famoso l’avrebbe sparato nel 2008, a Sadr City, colpendo un bersaglio alla distanza di 1.9 chilometri. I soldati americani, cui aveva, a seconda, aperto la strada o coperto le spalle, in alcune delle battaglie chiave della guerra, come Falluja e Ramadi, lo chiamavano con un nome da western all’italiana, The Legend, Leggenda.

A sentire lo stesso Kyle, gli iracheni avevano per lui un nome diverso: il diavolo di Ramadi. Sulla sua testa (sempre secondo Kyle) avevano messo una taglia di 180.000 dollari. Lasciata la Marina nel 2009, Kyle era tornato in Texas dove aveva aperto un’azienda d’addestramento per forze dell’ordine, che provvedeva anche assistenza a veterani affetti da PTSD. È stato uno di loro (ancora in attesa di processo) che lo ha ammazzato, al poligono di tiro dove Kyle e un collega lo avevano portato per distrarsi. Seppellito il 13 febbraio 2013, la sua processione funebre, lungo l’interstate 35, tra Midlothian, dove viveva, e il cimitero militare di Austin, copriva una distanza pari a oltre 250 chilometri. Sono quelle le immagini con cui Eastwood chiude il film. Al momento della sue morte, Chris Kyle era non solo una Leggenda riconoscibile sui talk show, ma anche l’autore di un’autobiografia best seller, American Sniper, che a sua volta era già destinata a diventare un film, prodotto da Bradley Cooper e diretto da Steven Spielberg. Eastwood lo ha però sostituito dietro alla macchina da presa intorno all’agosto 2013. Ed è facile vedere come l’epilogo della storia di Kyle abbia aggiunto un motivo d’interesse in più per il nuovo regista.

American Sniper è il secondo film di guerra che «Clint» eredita da Spielberg (il primo era stato Flags of Our Fathers), eppure i due hanno un modo molto diverso di raccontare il conflitto armato. Politicamente ed esteticamente parlando, l’occhio di Eastwood è essenziale, efficace, antisentimentale e antispettacolare. E il racconto del suo film evoca la semplicità e la cupa piattezza di quello del libro di Kyle – meno le dettagliate descrizioni dei vari modelli delle armi di precisione di cui l’autobiografia contiene interminabili paragrafi. Eastwood non è affascinato dalla tecnologia di cui il super-cecchino di serviva per mandare a segno i suoi colpi. Il suo non è il corpo dei SEALS, erotizzato come uno spot pubblicitario, alla Ridley Scott di Black Hawk Down, o quello della mascolinità romantico/elegiaca che potrebbe vederci John Milius.

Sparare bene, per Chris, era un dono, gli diceva il papà con cui andava a caccia di cervi. Oltre al fucile, c’era un’altra cosa che il diacono William Kenneth Kyle insegnava a suo figlio Chris: la Bibbia. In pochi stacchi precisi di flash back, all’inizio di American Sniper, Eastwood cristallizza davanti ai nostri occhi una realtà americana espressa qualche anno fa in una delle affermazioni più criticate di Barack Obama: «Quando la gente non ha altro si aggrappa alla pistola e alla bibbia». Anche per Clint quello è un dato di fatto. Non a caso, sempre nella prima mezz’ora di film, appendiamo ancora che, da ragazzo, Chris Kyle voleva fare il cowboy da rodeo, non il SEAL. Ma i tempi sono cambiati, quella realtà non esiste più (un leit motiv dalla tarda opera eastwoodiana), c’è stato l’11 settembre …..E Chris Kyle si ritrova in Iraq, il suo «dono», al servizio dell’eliminazione chirurgica del nemico. «Selvaggi», li chiama lui indistintamente.
Dominato non dall’introspezione psicologica, o dall’approfondimento dei personaggi, ma dalle azioni di Kyle, American Sniper è un film procedurale, sul «lavoro» della guerra, esattamente come lo era The Hurt Locker. È anche un oggetto speculare, di segno opposto, al film Oscar di Kathryn Bigelow. Non solo le sue immagini sono volutamente più brutali, realistiche, meno ricercate e stilizzate visivamente: mentre il protagonista del film di Bigelow (Jeremy Renner) era un artificiere specializzato nel disinnescare bombe, quindi in un certo senso, un soldato «pacifista», il rapporto tra Kyle e le sue vittime è impersonalmente personalissimo. Dietro ad ogni colpo (anche quelli che abbattono donne e bambini), c’è una scelta. Sono scelte, in American Sniper, che non hanno nulla a che vedere con l’eroismo, con la politica o con il giusto e lo sbagliato. E che pesano moltissimo. Lo si vede quando Chris torna a casa dalla moglie, tra un turno e l’altro, sempre più scollato dalla realtà (un’alienazione già raccontata in Gunny), e quando, alla fine, «rientra» per sempre.

Risolte anche quelle con pochi stacchi, le scene all’ospedale dei veterani sono devastanti nella loro asciutta delicatezza. La guerra, le pistole, le pallottole… hanno delle conseguenze. Non importa in che condizioni e per che causa si spari: dietro a ogni proiettile ci sono un uomo, e una decisione – ci ricorda Clint. In un momento in cui anche il cinema sulle realtà più complesse e indigeribili pare disegnato per mandare a casa lo spettatore tranquillo e soddisfatto di sè, è difficile immaginare un autore che osi mettere il pubblico di fronte a una realtà così dura, scomoda. Perché come quello di Ford, Hawks, Aldrich…. il cinema di Eastwood è, forse più di ogni altra cosa, un cinema della responsabilità. Il che lo rende un lancinante anacronismo. Più necessario che mai.