L’anno scorso, nel pieno dell’allarme «intolleranza» lanciato dagli ambienti progressisti indiani in risposta alla repressione della libertà di parola nel paese e agli attacchi fisici alle minoranze etniche, religiose e castali, l’ambiente intellettuale della capitale iniziò ad organizzare una serie di conferenze pubbliche tra università statali e auditorium pubblici, invitando a parlare esponenti di spicco dell’accademia nazionale.

L’aula come un buker
L’aula al secondo piano del Ramjas College di Delhi University, tra gli atenei più prestigiosi della Repubblica federale, alla fine del 2015 assomigliava a un bunker. Le elezioni universitarie, appena concluse, avevano sancito la vittoria assoluta del collettivo Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (Abvp), affiliato al gruppo ultranazionalista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh, dando ulteriore impeto alla progressiva «hinduizzazione» dell’ateneo, già affidato a un rettore espressione dell’Rss. In questo contesto, un gruppo di professori tenacemente progressisti aveva organizzato un’intera giornata dedicata al tema della libertà d’espressione, invitando relatori musulmani, dalit, vicini al Partito comunista indiano (marxista) ed ex maoisti convertiti al gandhianesimo.

Non senza sorpresa, seduto a terra schiacciato contro il muro da diverse centinaia di studenti, all’entrata di Romila Thapar nella stanza ho assistito a un vero e proprio boato da stadio: ventenni in piedi a spellarsi le mani mentre una signora ultraottantenne, bastone alla mano, guadagnava il podio per quello che si sarebbe rivelato un discorso a braccio di quasi due ore su pluralismo, accettazione, tradizione inclusiva dell’India, storia dell’antichità del subcontinente.
Thapar, senza dubbio la storica indiana vivente più nota e rispettata nell’accademia mondiale, da decenni lotta contro la cosiddetta «saffronization of history» (da «saffron», zafferano, il colore simbolo dell’ultrainduismo) in India smontando uno a uno i miti e le invenzioni che la destra hindu, prendendo a piene mani dalla mitologia induista, si impegna a propagandare come storia provata con l’obiettivo di validare la teoria madre dell’estremismo hindu: l’hindutva.

Ideologia e discendenza
Secondo l’ideologia dell’hindutva, teorizzata nel 1923 dal padre dell’ultrainduismo Vinayak Damodar Savarkar, gli hindu contemporanei sarebbero discendenti diretti degli ariani, popolo che ha abitato la valle dell’Indo ininterrottamente da oltre tremila anni e fondò la cosiddetta «civiltà indiana». Da questa base di purezza, a cascata, derivano tutte le diramazioni del pensiero ultrahindu che vede il territorio indiano (bharat) come maderpatria esclusiva degli hindu, da difendere, preservare o epurare da qualsiasi contaminazione esterna, sia religiosa, etnica o culturale.
La teoria dell’arianismo indigeno è in opposizione ad altre due teorie che parlano di invasione degli ariani (popolo venuto da fuori che sostituì la civiltà di Harappa) o, secondo Thapar, da una serie di migrazioni pacifiche e sincretiche che diedero vita a una civiltà indiana multiculturale, aperta e accogliente.
La tradizione stupefacente di un territorio che nei secoli vide avvicendarsi regni buddhisti, musulmani, hindu e occidentali, nonostante sia provata da decenni di studi accademici negli ultimi tempi è entrata nel mirino della destra hindu.

La destra hindu
La Rss e le sue propaggini accademiche e politiche (tra cui il Bharatiya Janata Party, Bjp, partito di governo guidato da Narendra Modi) si sono fatte promotrici di una rilettura della storia che esalti le «virtù indiane», ispirando un senso di appartenenza collettivo ai valori portanti dell’induismo: la religione, la dieta, l’orgoglio patriottico e la preservazione dalle impurità, anche culturali. In questo senso il discorso ideologico e politico delle destre individua nella mitologia hindu un passato storico vero, realmente accaduto: un’Età dell’Oro alla quale il paese deve tornare per riacquisire il proprio orgoglio e il proprio posto nello scacchiere delle potenze mondiali. Al pari delle teorie creazioniste destituite di ogni barlume di storicità, le figure mitologiche del pantheon indiano e i costumi dell’induismo contemporaneo subiscono un processo di storicizzazione che ha un effetto diretto nei rapporti intercomunitari del paese, sfociando spesso in fiammate di violenza contro chi non si adegua alla vulgata identitaria.

Si va dalla messa al bando di «The Hindus: An Alternative History» dell’indologa Wendy Doniger, colpevole di aver mostrato la fiorente tradizione erotica della letteratura hindu, o alle polemiche contro «The Holy Cow» dello storico D.N. Jha, autore di un saggio sul consumo di carne bovina all’interno della tradizione hindu, negato dai sostenitori dell’hindutva. Passando per continue demonizzazioni del periodo musulmano, considerato dagli ultrahindu una sorta di alto medioevo barbarico nonostante il fiorire di arti, cultura e architettura ancora oggi ben visibile in gran parte del patrimonio storico intatto a New Delhi, tra le altre.

Il mito di Ram
L’esempio più eclatante di danni causati dalla «saffronisation of history» in India è rappresentato dal mito di Ram snaturato dalla destra hindu negli anni Ottanta, un fenomeno già evidenziato da Daniela Bevilacqua su il manifesto nel gennaio del 2014. La figura di Ram, protagonista dell’epica del Ramayana e già divinizzato nel XI secolo come esempio di virtù hindu, negli anni Ottanta entra nel mirino della propaganda del Bjp, a caccia di voti in Uttar Pradesh. Secondo una rilettura filologica del poema epico del Ramayana, il gruppo dirigente del Bjp iniziò a diffondere la scoperta fatta da «storici dell’Rss» secondo cui la moschea realizzata dall’imperatore musulmano Babur tra il XV e il XVI secolo sarebbe stata edificata dopo aver raso al suolo un tempio hindu eretto nel preciso punto del luogo di nascita di Ram.

Nacque così il movimento Ramjanmabhumi (terra di nascita di Ram, dal sanscrito) che, in una campagna elettorale itinerante partita dal Gujarat, raggruppò milioni di fedeli hindu attorno alla causa del ristabilimento della giustizia storica ottenibile solamente con la demolizione della moschea, lasciando spazio per la realizzazione di un grande tempio hindu dedicato a Ram. L.K. Advani, all’epoca nome di spicco del Bjp, scrisse nelle sue memorie: «Se ai musulmani è accordata un’atmosfera musulmana alla Mecca, e ai cristiani un’atmosfera cristiana nel Vaticano, che c’è di male a pretendere un’atmosfera hindu per gli hindu ad Ayodhya?».

Nel 1990 un primo raid da parte di migliaia di attivisti della destra estrema hindu fu respinto dalle forze dell’ordine dell’Uttar Pradesh, governato dal Samajwadi Party della famiglia Yadav. L’anno seguente il Bjp stravinse le eleziono locali nello stato e nel 1992, con un’amministrazione favorevole, le stesse migliaia di ultrahindu si radunarono il 6 dicembre alle porte di Ayodhya per quella che doveva essere una «deposizione simbolica» della prima pietra del tempio. La folla, aizzata dai comizi di esponenti di Bjp, Rss e Viswha Hindu Parisaha (Vhp, altra sigla dell’ultrainduismo), sfuggì al controllo delle autorità e armata di picconi demolì l’intera struttura davanti agli occhi impotenti di un’intera nazione.

La reazione della comunità musulmana portò a scontri in tutto il paese (oltre 2 mila morti), dando inizio a un vortice di violenze intercomunitarie che insanguinarono Bombay nel 1992 (Bombay Riots, oltre duemila morti) e nel 1993 (Bombay bombings, 257 morti) e il Gujarat nel 2002 (treno di pellegrini hindu in fiamme a Godhra, 57 morti; reazione della destra hindu e della polizia nei Gujarat Riots, oltre 2000 morti). Una ferita aperta dalla Storia secondo le caratteristiche hindu e non ancora rimarginata.