Sconcerto e incredulità ha suscitato in noi donne dell’Udi Romana «La Goccia» la lettura dell’articolo «Non è violenza di genere» di Sarantis Thanopulos apparso su il manifesto del 31 agosto. Riteniamo che nel suo ragionare Thanopulos non tenga conto affatto del lungo e sapiente lavoro che le donne hanno fatto negli ultimi decenni per analizzare e capire il significato della violenza maschile sulle donne. Noi non riteniamo affatto naturale e «genetico» come lui sostiene il desiderio sessuale maschile legato al possesso della donna, ma frutto di una cultura patriarcale che ha pervaso di sé tutta la struttura e cultura sociale, alterando le soggettività di donne e uomini (i due generi, appunto) e falsando le relazioni tra loro. Secondo lui la violenza sulle donne «danneggia egualmente uomini e donne come soggetti sessuali… danneggia più l’uomo che la donna perché l’uomo violento perde il suo oggetto del desiderio e subisce una deprivazione psichica devastante. Una donna può essere sopraffatta dalla violenza ma restare internamente viva». Noi sappiamo invece per esperienza che il danno di un atto di violenza di genere riguarda innanzitutto l’integrità psicofisica della donna umiliata e offesa in quanto donna da un uomo in quanto uomo, perciò è violenza di genere. Ed è anche un problema sociale che chiama alla responsabilità tutto il genere maschile perché prenda definitivamente le distanze da quel maschilismo devastante che tanti danni procura. Sosteniamo da tempo che la sessualità è per noi modalità di scambio e di incontro nel reciproco riconoscimento del desiderio e del piacere. Questo non può accadere se il coinvolgimento sessuale come sostiene Thanopulos è «intimamente connesso, sul versante maschile del desiderio, con la passione di appropriazione che rischia se non è adeguatamente modulata di distruggere ciò che ha tra le mani». Noi non siamo degli oggetti, ma pienamente soggetti pensanti e desideranti, anche nel rapporto sessuale.

Giuliana Campanaro e Rosanna Marcodoppido, Roma

 

Care Giuliana e Rosanna,
Spero sempre che sia possibile quando qualcuno espone delle idee sforzandosi a non restare nel campo della condivisione consuetudinaria del pensiero, che ci sia nei suoi confronti un’attenzione critica certamente ma unita a una certa curiosità, un desiderio di dialogare. Mi spiace di conseguenza che abbiate letto la mia rubrica con un certo pregiudizio attribuendomi cose che non dico.
Dal momento che non mi riconosco affatto nella collocazione che mi avete riservato credo siano utili alcune precisazioni:

1) Non ho parlato in alcun modo di un desiderio sessuale maschile naturale e «genetico» legato al possesso della donna e la vostra attribuzione a me di una simile affermazione se soddisfa l’intento polemico resta sempre un arbitrio bello e buono.

2) Avete isolato una mia frase dal suo contesto alterando il suo significato. Ecco il pezzo nella sua interezza:
«Il coinvolgimento fa paura perché comporta l’esposizione al desiderio dell’altro ma anche perché è intimamente connesso – sul versante maschile del desiderio – con la passione di appropriazione che rischia se non è adeguatamente modulata di distruggere ciò che ha tra le mani. L’intero edificio sociale si basa sulla complementarità dei sessi che incastra tra di loro (nella relazione degli amanti e nel mondo interno di ciascuno di loro) il concedersi all’altro (e alla vita) e la brama di possesso. L’equilibrio è vulnerabile perché è esposto a incomprensioni e fraintendimenti e perché il sottile lavoro di contrattazione costante subisce le difficoltà di mediazione tra la necessità di regolamentazione dell’elemento maschile della sessualità, che implica il ricorso a convenzioni e norme, e l’anticonformismo costitutivo dell’elemento femminile».

Se si legge questo pezzo in modo non precostituito si capisce che sto parlando dell’incastro tra il concedersi all’altro (aprendosi alla vita), che corrisponde all’elemento femminile del desiderio, e la brama di possesso e di appropriazione, che corrisponde all’elemento maschile. Questo incastro che rende possibile il coinvolgimento sia nell’uomo sia nella donna (che sono fatti entrambi di questi di due elementi anche se in combinazioni, declinazioni diverse) non è facile perché non solo non è facile concedersi all’altro (è sempre un rischio per tutti) ma anche perché la brama di possesso se eccede i giusti limiti (nell’uomo e nella donna) rischia di distruggere (dentro di sé in primo luogo) ciò che si ama. La relazione di desiderio è soggetta a contrattazioni, non si stabilisce in modo automatico, e le convenzioni e le regole possono sostituire il piacere dell’incontro spostandolo verso i rapporti di potere (il che purtroppo è pane quotidiano della nostra esistenza).
Che c’entra tutto questo con la vostra dichiarazione polemica che non siete oggetti di nessuno ma soggetti desideranti? Chi l’ha messo in discussione?

3) Perché vi scandalizza la mia affermazione che la violenza maschile nei confronti della donna danneggia di più l’uomo come soggetto desiderante che la donna? La donna violata nella sua autodeterminazione e nel suo desiderio è ovviamente danneggiata sul piano psichico ma non è morta dentro. Può prendere cura (anche con mille difficoltà) del suo dolore e della ferita che sanguina perché resta una persona psichicamente viva. L’uomo che abusa del suo oggetto di desiderio e addirittura lo uccide è morto psichicamente. Quando egli varca la soglia insuperabile è un’impresa inimmaginabile recuperarlo. Quando la morte ha preso il sopravvento dentro di noi è tardi per recuperare il senso della nostra esistenza. Si può ben dire «Chi se ne frega di queste bestie è alle loro vittime che bisogna pensare». Questo è comprensibile e perfino legittimo se pensiamo al singolo caso ma se allarghiamo lo sguardo le cose cambiano. Sul piano del desiderio gli uomini rischiano di ammalarsi e morire come soggetti desideranti più delle donne. Questo significa che la violenza nei confronti dell’oggetto desiderato che vede tipicamente (ma non esclusivamente) l’uomo nel ruolo del carnefice e la donna in quello della vittima, non è per l’uomo un problema delle donne ma soprattutto suo e la sua solidarietà nei loro confronti non può essere costruita sulle basi della compassione e dell’amore nei confronti del prossimo (l’ultima cosa di cui avrebbero bisogno le donne): è innanzitutto una cosa necessaria per la sua salute psichica.

4) La mia posizione è, molto schematicamente, questa: il femminicidio e la violenza dell’uomo contro la donna in generale non è la malattia ma il sintomo. La malattia vera e propria è la violenza dell’ordinamento sociale nei confronti della sessualità che aspira a trasformare le relazioni di desiderio in relazioni di dominio e di potere. Il bersaglio è l’elemento femminile della sessualità (non è superfluo ripeterlo: nella donna e nell’uomo) perché è questo elemento (il desiderio di lasciar che la presenza desiderante dell’altro destrutturi la nostra organizzazione psicocorporea aprendola all’esperienza del mondo e al suo godimento), il punto insieme più coraggioso e vulnerabile della nostra relazione con la vita, che si oppone alla trasformazione della sessualità in eccitazione permanente non finalizzata all’incontro; questa eccitazione in cui tutti siamo immersi è il veicolo di una «servitù volontaria» a un potere sempre più impersonale e sempre più incline al totalitarismo.

La posta in gioco è enorme per gestirla in termini di divisione tra generi. Donne e uomini sono esseri umani in nulla diversi tra di loro se non per la diversità dell’organizzazione psicosessuale che ci predispone tutti all’incontro e alla socializzazione della nostra esperienza (con tutti i conflitti che ne fanno parte). Possiamo declinare come vogliamo la nostra complessità ma senza perdere di vista la sua ragione di fondo.

L’indifferenziazione (deriva autarchica/autistica che annulla l’incontro) con cui le forze di conservazione sociale (l’espressione di un’inerzia mortifera che caratterizza la pietrificazione dei rapporti di potere) reagiscono all’emancipazione della donna (che dove è reale e non imitazione di modelli maschili difensivi, ma rimette potentemente in movimento il desiderio nelle relazioni sociali), è una malattia della civiltà che colpisce più gli uomini (la cui sessualità ha un’organizzazione tendenzialmente più compatta) che le donne (più libere e profonde nella loro sessualità, in circostanze non inibenti). Se anche le donne venissero colpite in egual misura la frittata sarebbe fatta.

Il femminicidio è un campanello d’allarme. Possiamo concentrare tutta la nostra attenzione per vedere come farlo smettere di suonare (speranza illusoria) per continuare a dormire; ma possiamo anche decidere di svegliarci dal lungo sonno e cercare di capire cosa sta succedendo.

L’inasprimento forte delle pene è una cosa giusta e necessaria perché ha un effetto catartico: stabilisce che l’uccisione dell’oggetto del desiderio è un delitto contro l’umanità, contro il nostro futuro. Se questa percezione si consolidasse nella coscienza collettiva ci porterebbe anche a comprendere che il rispetto dell’altro come oggetto di desiderio (a tutti i livelli delle relazioni sociali) è il valore etico fondamentale (che ci protegge, tra l’altro, dai giudizi puramente morali). Il rischio che corriamo è puntare tutto sulla repressione di un fenomeno (basata sulla punizione e sulla rieducazione dei singoli individui a rischio di violenza: la seconda funziona come prevenzione meglio della prima) allontanandosi dal vero problema: il pericolo mortale che corriamo tutti come soggetti desideranti (attualmente più gli uomini che le donne) in una società che si regge (per quanto?) sull’eccitazione.

Sarantis Thanopulos