È interessante l’ostentata sorpresa ,unita a scarsa informazione, di gran parte della classe politica per la morte di due immigrati e di una cittadina italiana, avvenuta questa estate nelle campagne del Meridione, e principalmente per la presenza di altri cittadini italiani tra questi lavoratori, da considerare vittime del reato, previsto dall’articolo 600 codice penale, di riduzione in servitù.
Essa dimostra la scarsa conoscenza, da parte anche dell’area progressista, di quella cronaca giudiziaria che dovrebbe essere strumento e stimolo per meglio organizzare le lotte in difesa della salute e della dignità dei lavoratori.
Ai miei tempi, le sentenze dei «pretori di assalto», pronunciate in difesa dei principi della Costituzione e quindi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente, erano diffuse, studiate e condivise da operai, sindacalisti e studenti, mentre erano bersaglio di invettive, procedimenti disciplinari, accuse di partigianeria, controlli dei servizi segreti.
Le preture sono state abolite, ma alcuni giudici – a prescindere da etichette correntizie – continuano a pronunciare sentenze necessariamente di parte: nel conflitto, portato nelle aule giudiziarie, tra esigenze di profitto ed esigenze sociali, danno prevalenza alle seconde, conformemente alla nostra Costituzione che riconosce la libertà di iniziativa economica privata, a condizione che non leda l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità umana.
Queste sentenze e i loro autori hanno perso, però, il carattere provvidenziale ed eroico e la benevola notorietà negli ambienti progressisti: i potenti proprietari di imprese e dei mezzi di informazione stanno addirittura portando avanti una moderna e astuta campagna di satira politica, secondo cui questi giudici, presi da ansia donchisciottesca per la salute di lavoratori e cittadini, minano le fondamenta del sistema produttivo, spaventano i finanziatori stranieri, aggravano la crisi dell’occupazione.
I moderni eroi creati dalla stampa e dalla televisione progressisti sono diventati i magistrati che – senza rinunciare alla collocazione nel terzo potere – si offrono come guardie togate nel mondo delitto politico, lasciando il faticoso lavoro giudiziario e inventando un nuovo tipo di ambigua funzione pubblica, che si esprime oggettivamente nel campo del giuridicamente e del «politicamente corretto».
Questo vuoto conoscitivo tra cronaca giudiziaria e avanguardia politica, come già accennato, è venuto particolarmente in luce con la morte di tre lavoratori (una donna italiana e due immigrati) nelle campagne della Sud, nell’ambito del fenomeno criminoso – ampiamente sviluppato in Puglia – della riduzione in servitù, cioè del fenomeno dello sfruttamento selvaggio della mano d’opera.
Sono decenni che la magistratura segnala la radicata presenza nel nostro sistema produttivo ortofrutticolo di un tipico contratto di lavoro, in cui il soggetto attivo (datore di lavoro o il cosiddetto «caporale»), approfittando della situazione di necessità dell’altro contraente e avvalendosi del reclutamento in violazione del divieto di intermediazione, stipula un accordo oppure crea una situazione di fatto, in cui pone il lavoratore in uno stato di soggezione continuativa costringendolo a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento, (esempio: servitù della gleba). Si vedano al riguardo le sentenze non recenti della Cassazione numero 3909 del 1990, numero 2841 del 2007, numero 37489 del 2004. Quest’ultima sentenza riguarda proprio la campagna pugliese, con protagoniste donne extracomunitarie, rinchiuse a chiave in un casolare, prelevate esclusivamente per essere portate nei campi agricoli, venendo private di gran parte degli emolumenti giornalieri.
Ancora la Puglia e i suoi campi riguardano la sentenza numero 40045 del 2010 (cittadini dell’Europa orientale con retribuzioni nettamente inferiori alle promesse, costretti a vivere in alloggi fatiscenti, privi di servizi e con scarsi alimenti) e la sentenza numero 14591 del 2014 (14 cittadini rumeni, di cui uno dodicenne, il cui contratto di lavoro prevedeva la necessaria mediazione di un connazionale e l’impegno a non chiedere il misero compenso pattuito, pena l’esclusione da questo sporco mercato del lavoro).
Questi processi si sono svolti con modesta attenzione dei cittadini ed è auspicabile che almeno per quelli che deriveranno dalle drammatiche vicende di quest’estate i mezzi di informazione tolgano la sordina e diano adeguata attenzione alle indagini e alle decisioni, posto che il capitalismo italiano da decenni vive anche sull’incivile sfruttamento dei lavoratori italiani e stranieri nelle campagne del Meridione.
È interessante che un presidente regionale – dopo la funesta eco dei tre morti – comunica ai cittadini che «qui si parla di reati, non è solo un fenomeno economico».
Si tratta, quindi, di una vergogna nazionale e non soltanto perché i prodotti pugliesi, campani, calabresi sono acquistati all’ingrosso e al minuto, consumati e inscatolati in tutto il Bel Paese; ma anche perché riguarda il livello di civiltà e la dignità del popolo e delle istituzioni .
È deprimente che i vertici della sinistra locale hanno sostanzialmente omesso di efficacemente attivarsi e di agire politicamente e giuridicamente contro l’incivile arretramento del territorio formalmente da essi governato.