Dopo due giorni di voci e smentite, ieri la tregua in Siria è stata ufficialmente annunciata: a mezzanotte le armi sarebbero state abbassate in tutto il paese. Il teatrino di dichiarazioni sul tutto e il suo contrario è stato accantonato dal presidente russo Putin, che mercoledì insisteva nel non confermare l’accordo che la Turchia dava per assodato.

Per sé si è riservato l’atto finale: a partire da mezzanotte – ha detto – scatterà il cessate il fuoco a cui seguiranno i negoziati di pace tra il governo e le opposizioni in Kazakistan. «Gli accordi raggiunti sono, senza dubbio, molto fragili e richiedono attenzione e continuità per poterli sviluppare. Nonostante ciò si tratta di un risultato notevole».

Sarebbero tre i documenti firmati da Mosca, Teheran e Ankara: il primo contiene l’accordo di tregua tra i due fronti, il secondo le misure previste per farla rispettare e il terzo la preparazione del processo di pace sulla base di Ginevra 2012 (esecutivo di transizione che prepari elezioni e nuova costituzione entro 18 mesi).

A margine dell’incontro, Putin ha annunciato il graduale disimpegno del suo esercito nel campo di battaglia siriano: truppe resteranno nella base costiera di Latakia e nel porto di Tartus, ma parte delle unità coinvolte e delle armi impiegate saranno ritirate.

Ora la palla passa nel campo di Astana, dove – si augurava ieri Naumkin, consigliere dell’inviato Onu de Mistura che ha confermato la partecipazione attiva delle Nazioni Unite – il tavolo dovrebbe aprirsi a gennaio, preferibilmente prima del 20 quando Trump sostituirà alla Casa Bianca l’attuale presidente Obama. Meglio gettare prima le basi del negoziato, l’opinione condivisa da Russia e Turchia che di fronte oggi hanno solo il fantasma degli Stati Uniti. Usciti dal processo negoziale, commentano con un laconico «è un passo positivo».

Parlano invece le opposizioni dopo aver negato di essere a conoscenza di un accordo in via di definizione: fino a mercoledì l’Esercito Libero Siriano diceva di non essere stato contattato da nessuno, sebbene combatta fianco a fianco con i soldati turchi nel nord della Siria. Strategia politica o dimostrazione di debolezza? Superata la questione Ghouta Est, sobborgo inizialmente escluso dalla tregua, il salafita Ahrar al-Sham – leader del fronte anti-Assad – ha dato il via libera, seguito a ruota dall’Alto Comitato per i Negoziati, ormai ridotto a mero paravento di legittimità per le potenti fazioni islamiste che ne fanno parte.

Se 62mila miliziani – è il calcolo russo – faranno tacere le armi, fuori dalla tregua restano Isis e ex al-Nusra (tra i 19mila e i 25mila membri stimati il primo, 10mila il secondo). Da confermare è l’esclusione dei kurdi di Rojava, che in questo modo finirebbe nel calderone dei “gruppi terroristi” nonostante il sostegno Usa: due giorni fa il ministro degli Esteri turco Cavusoglu celebrava l’estromissione di Ypg e Ypj dal tavolo kazako, ma ieri l’unico a ribadirlo era l’Esercito Libero Siriano.

Di certo qualcosa i russi hanno passato sotto il tavolo alla Turchia: il sostegno nell’operazione che a nord punta a spezzettare i cantoni di Rojava. Ieri per la prima volta raid aerei russi hanno coperto l’avanzata dell’esercito turco colpendo postazioni Isis ad al-Bab, la strategica comunità a metà tra Aleppo e il confine, in cui si stanno affollando gli islamisti fuoriusciti dalla città siriana ripresa dal governo.

E se la guerra non cessa – al-Bab e Idlib ne sono un esempio – la speranza dei civili è che vengano consegnati gli aiuti umanitari, indispensabili a salvare la vita a chi da mesi, anni, muore letteralmente di fame.