La festa alla fine si farà, a Tripoli, e sarà una tregua, o meglio un cessate il fuoco in occasione dell’Eid al Adha, i «giorni della letizia» o «dello sgozzamento» in cui tutto in mondo musulmano si celebra il sacrificio imposto per obbedienza ad Ibrahim del figlio Ismaele, all’ultimo momento trasformato in agnello. E all’ultimo momento, ieri, entrambi i combattenti della battaglia di Tripoli hanno alla fine accettato di aderire alla tregua proposta già da diversi giorni dall’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassam Salamé.

La doppia decisione è stata molto contrastata in entrambi i campi e ha «preteso» il suo bagno di sangue sacrificale. Pochi minuti prima che anche il generale cirenaico Haftar desse il suo beneplacido, nella sua capitale dell’Est – Bengasi – un’autobomba è esplosa in pieno centro, davanti ad un centro commerciale e a una banca. Un’auto della missione Onu (Unsmil) è andata a fuoco, possibile target dell’attentato, e secondo fonti mediche i due funzionari delle Nazioni Unite che erano all’interno – uno straniero e un libico – sono morti carbonizzati.

TRA I SOSTENITORI PIÙ ACCESI di Haftar negli ultimi giorni si è assistito a una campagna denigratoria dell’operato di Salamé e dell’Unsmil, con l’accusa di «non essere neutrali». Una campagna d’odio fomentata dalle tv di propaganda e dai vecchi presentatori di regime, ora riciclati a fare proclami a favore dell’ex generale gheddafiano e a individuare come bersagli personalità della Cirenaica considerate «traditori». è stato il caso della deputata di Bengasi Seham Sergewa e dell’alto funzionario del ministero della Giustizia di Tripoli ma residente a Baida, in Cirenaica, di cui è stato rivenuto il corpo martoriato due giorni fa. Alcune tv di questo tipo – come Akhbaria o Alhadath channel – non hanno neanche riportato la notizia della tregua. Del resto era stato lo stesso Salamé nell’ultimo briefing al Consiglio di sicurezza Onu a avvertire che «alcuni media fomentano la guerra e la violenza». Non solo. A febbraio era stata l’ong Reporters sans Frotiéres, che si occupa di libertà di stampa, a pubblicare una lista di 11 emittenti televisive libiche che «giustificano il terrorismo» e «minacciano la pace» perché usate come megafono e «strumento dai belligeranti», in un Paese dove l’odio è un mare acido anche al di là dei social media e ci sono più armi che persone.

LA TREGUA PER L’EID – che dovrebbe durare fino a martedì 13 e comprendere anche lo stop ai movimenti di truppe e il divieto di sorvolo su tutto lo spazio aereo libico – è stato sottoscritto alla mezzanotte di venerdì, per primo, dal premier Fayez Serraj, ma anche tra i suoi miliziani non sono mancati i recalcitranti, tanto da metterla in forse. Il comandante della Brigata Al Samud, il jihadista misuratino Salah Badi – nemico acerrimo di Haftar – ha inizialmente rifiutato di smettere di combattere. E persino un colonnello dello Stato maggiore delle forze del governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, Nasser al Qaid, ha annunciato che avrebbe respintoqualunque tregua con l’Esercito nazionale libico (Lna) di Haftar. Ma tra le quattro clausole della tregua, Serraj ha inserito il monitoraggio del rispetto del cessate il fuoco da parte dell’Unsmil. E alla fine, nel primom pomeriggio, anche il portavoce dell’Lna Ahmed Mismari ha dato l’annuncio tanto atteso: stop ai combattimenti e ai raid aerei ma solo fino a lunedì.

ORA STA A SALAMÉ, oltre a rendere possibile di alleviare le sofferenze dei civili, permettere l’arrivo degli aiuti umanitari agli sfollati e ai profughi e l’incolumità delle squadre di manutentori dei servizi idrici ed elettrici nella capitale, anche consentire la ripresa di negoziati. In questa finestra di pace Salamé vorrebbe coinvolgere le potenze straniere più coinvolte negli affari libici – Italia, Francia, Emirati, Qatar, Russia, Egitto, Gran bretagna, Turchia – per una conferenza internazionale e d’altro canto i principali partiti libici per una conferenza nazionale per la pace.

A complicare il suo mandato – che scade a settembre – la guerra è esplosa anche nell’estremo Sud del Paese, a Murzuq, dove dopo la strage di 43 persone di etnia Tebu la città è divisa in due e ci sono oltre v2 mila persone, famiglie intere, asserragliate in casa, bisognose di cure e cibo per timore di pogrom etnici, tra arabi e Tebu, e saccheggi.