I tedeschi sarebbe meglio conoscerli e magari leggerli, possibilmente sapendo il tedesco; e poi interpretarli. Non si sta parlando di Angela Merkel, anche se per lei valgono gli stessi principi; ma dello storico Hans Woller e del suo ultimo libro tradotto in Italia, Mussolini, il primo fascista (Carocci «Sfere», pp. 331, euro 28,00) che nel 2016 è stato pubblicato dalla casa editrice tedesca Beck. E di ciò che se ne impara. È successo invece che il libro è stato attaccato con violenza gratuita (definendo quella di Woller «sciatteria colloquiale») da Emilio Gentile, considerato uno dei maggiori storici italiani del fascismo. Lo ha fatto a novembre, in una recensione sul Domenicale del Sole 24 ore, dove ha stroncato il libro partendo da una serie di «strafalcioni» che l’autore avrebbe compiuto e che dimostrerebbero la sua «scarsa accuratezza». Gli errori sarebbero questi: Woller avrebbe definito Mussolini «caporedattore» dei suoi giornali, prima dell’Avanti! e poi del Popolo d’Italia. Ed ecco la questione del tedesco. Se Gentile, prima di accusare di sciatteria l’autore, avesse per lo meno verificato l’originale e soprattutto la bibliografia sulla produzione giornalistica in Germania (per esempio attraverso il Journalistikon. Das Wörterbuch der Journalistik, che si può trovare comodamente su un sito web) si sarebbe reso conto che il «direttore» o «direttore responsabile» di un giornale in Italia, in Germania viene definito appunto «Chefredakteur», termine che Woller ha usato in tedesco. Il celebre Rudolf Augstein era per esempio Chefredakteur ufficiale di «Der Spiegel», settimanale che aveva fondato.
Non è strano, quindi, che nel testo tedesco Woller abbia usato per Mussolini appunto il termine «Chefredakteur» (alle pp. 54, 58, 81 nell’edizione Beck; 47, 50, 68 in quella italiana). La traduzione da questo punto di vista è stata leggermente imprecisa, ma un recensore senza idiosincrasie se ne sarebbe potuto rendere conto con un semplice controllo. Soprattutto perché Woller è da anni un fondamentale ricercatore dell’Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera, importante centro di studi sulla storia del Ventesimo secolo in Germania; ed è da altrettanto tempo un profondo conoscitore del fascismo, su cui ha pubblicato vari libri tradotti anche in italiano. Infine, continua a svolgere ricerche documentarie negli archivi italiani e tedeschi; mentre – e lo si nota con dispiacere – da tempo Gentile ha smesso di fare la stessa cosa. Insomma, Woller non meritava per niente di essere trattato in quel modo.
Il risultato della stroncatura è stato che dopo di essa il libro non ha ricevuto attenzione e neppure una seria, approfondita recensione. Ed è stata un’assoluta sciocchezza, soprattutto di questi tempi in cui il fascismo e Mussolini vengono trattati in maniera un po’ demenziale come fenomeni del tutto giustificati e comprensibili. Quella di Woller, invece, è un’opera ricchissima in tutti i sensi e scritta molto bene. Non mancano, tra l’altro, i riferimenti agli studiosi italiani anche recenti, compreso, e più volte citato, lo stesso Gentile. Così pure, non manca una vasta bibliografia americana, francese e inglese. Soprattutto, è davvero solidissimo il riferimento alla storiografia di lingua tedesca. Una parte impressionante dell’analisi di Mussolini, il primo fascista è basata proprio sulle ricerche e i lavori di autori tedeschi. Sono storici talvolta giovani, ma di grande rilievo: Thomas Schlemmer, Wolfgang Schieder, Daniela Liebscher, Patrick Bernhard, Ute Schleimer, lo svizzero Aram Mattioli. Sono tutti studiosi in pratica poco conosciuti da noi, che invece sarebbe meglio conoscere, e tradurre, di più.
Ma nell’opera di Woller ci sono anche delle rilevanti novità concrete. Si tratta in sostanza di un’attenta ricostruzione, scandita da date periodizzanti, della vita politica di Mussolini, della sua evoluzione flessibilissima da giovane rivoluzionario – con una precoce idea della razza – a leader della nuova Italia, attento, in base a quanto aveva imparato dalla sua esperienza nel Partito Socialista, ai rapporti con i sistemi, gli equilibri e gli uomini di potere. Fino a quando, dopo anni di gestione abile e intelligente del sistema messo in piedi, non arrivò a dare forma e sostanza alle sue basilari idee razziste.
In questo senso, alcune pagine notevoli sono dedicate all’impostazione che Mussolini diede alla guerra d’Africa tra il 1935 e il 1936. I punti di riferimento sono anche qui le opere di storici italiani fondamentali come Rochat, Del Boca e Labanca. Ma il testo cruciale che ora Woller può citare è quello di Mattioli sull’Abissinia. L’effetto è la descrizione di un «genocidio» e di una «campagna di sterminio» che probabilmente diede forma a quello che avvenne in tutta l’Europa orientale durante la seconda guerra mondiale, anticipando «i principi di una moderna guerra di massa» (p. 117). Mattioli ha appunto fornito delle cifre che colpiscono (p. 122): nella cosiddetta «guerra dei sette mesi» morirono circa 150 mila indigeni, di cui un terzo civili. Subito dopo «si calcolano ormai tra i 180 e i 230.000 morti», mentre i morti italiani «sarebbero arrivati complessivamente a 25.000»; anche di loro, «caduti per il duce e la patria», ci fu quindi una strage.
E poi l’antisemitismo, «uno dei pilastri portanti dell’ideologia di Mussolini già negli anni Venti». Anche in questo caso Woller è molto lontano da De Felice e dalla sua storia del fascismo che ha prevalso fino ad oggi. In Mussolini, il primo fascista, infatti, il rapporto con e contro gli ebrei – usandoli, però, se serviva – diventa rapidamente fondamentale per il duce, anche nelle relazioni con Hitler. In un messaggio del luglio 1935 affidato a un giornalista affinché lo facesse arrivare al capo nazista (ne ha parlato Schieder), il duce aveva detto di essere «del parere che gli ebrei mai potrebbero essere fascisti e pertanto li ha allontanati dalle posizioni più importanti». Eppure all’epoca si era ancora molto lontani dall’Asse italo-tedesco, avviato quasi un anno dopo. Anzi, Woller avanza l’ipotesi che fu Mussolini, nel maggio 1935, a muovere il primo passo dell’alleanza, prima quindi che Hitler decidesse di appoggiare l’Italia nella guerra d’Abissinia.
Si tratta, nel complesso, di un’altra importante revisione storiografica, secondo la quale, a proposito del razzismo e dell’antisemitismo, Mussolini condusse a lungo la partita rispetto a Hitler; fino al punto che si vantò di essere stato lui stesso, a proposito di razzismo, ad anticipare già nel 1921 il capo nazista. La situazione poi lo vide via via sempre più feroce e persecutorio nei confronti degli ebrei, anche prima di perdere il potere il 25 luglio 1943 e di arrivare alla completa dipendenza della Germania.
È una tesi ancora una volta sempre più lontana da De Felice, ma molto vicina ad esempio ai documenti che di recente sono emersi in una mostra del Museo della Shoah di Roma (si veda il catalogo, Solo il dovere oltre il dovere, a cura di Sara Berger e Marcello Pezzetti, Gangemi editore). Essi raccontano di una diplomazia italiana che nei paesi europei dominati dai nazisti via via ricevette sempre più indicazioni dal centro (e pare proprio da Mussolini) a proposito della consegna degli ebrei stranieri ai tedeschi, sapendo alla perfezione e da anni che era in atto lo sterminio. In questo modo però pare anche di capire che il duce divenne via via sempre più ostile, già tra il ’42 e il ’43, verso gli ebrei italiani che si trovavano in quei paesi: soprattutto quando essi non rappresentavano delle ricche proprietà nazionali. Da documenti come questi, senza dubbio, la dura analisi di Woller sul fascismo potrà conoscere nel futuro un’evoluzione ancor più positiva. E meritoria.