Scrittore, sceneggiatore, direttore artistico del progetto dedicato agli adolescenti Arrevuoto, Maurizio Braucci aveva 18 anni quando Diego Armando Maradona arrivò a Napoli.

Che città era quella che El Pibe trovò?
C’erano ancora le impalcature del terremoto del 1980 che puntellavano il centro storico. Era una città segnata dalla piaga del sisma e dalla ricostruzione oscura. Cioè dall’elemento che ha fatto fare il salto di qualità alla criminalità organizzata attraverso gli affari, soprattutto a quei clan che poi lo intrappoleranno. È il momento del passaggio nelle piazza cittadine dall’uso di eroina alla cocaina, un business che diventa anche consumo da parte delle famiglie criminali. Una fase quindi di potenziamento delle forze oscure e non è un caso che Maradona ci resta intrappolato.

E il tessuto sociale?
È anche una città di grosse ferite. Il terremoto provoca il dislocamento di una parte della popolazione del centro storico verso le periferie, come Scampia, il Parco Verde di Caivano. Si frammenta la dimensione sociale e familiare del centro cittadino producendo quelle periferie abbandonate a se stesse. Ma, allo stesso tempo, si gettano i primi semi di un certo attivismo che poi esploderà negli anni Novanta. Di notte è oscura. I ragazzi fanno le partite di pallone, e non le canne, nella città buia, l’illuminazione stradale è scarsa, l’igiene precaria, ma si aprono alcuni locali, ci sono i dark, i mod, le band musicali. Germogli che esploderanno nel decennio successivo in un grande fermento sociale e culturale. Tutti semi, nel bene e nel male, che mette il terremoto.

I giornali insistevano nello scrivere che eravamo poveri ed era uno scandalo spendere 15 miliardi di lire per quell’acquisto. Non ci potevamo permettere Maradona.
Il documentario di Asif Kapadia Diego Maradona del 2019 mostra la prima conferenza stampa allo stadio San Paolo, un giornalista di Napoli chiede com’è possibile che abbiamo comprato questo campione, insinuando che l’affare si sia fatto con i soldi delle camorra. Il presidente Ferlaino lo caccia. L’incredulità era tanta all’epoca: c’era all’esterno, nel resto d’Italia, e anche in città. Invece era proprio il personaggio per Napoli.

Cosa aveva in comune con la città di così forte da attraversare tutti gli strati sociali?
Negli anni Novanta occupammo una struttura che battezzammo Damm – Diego Armando Maradona Montesanto. Poco distante, a via Tarsia, c’era un disegno sul muro: San Gennaro con in braccio Maradona e sotto la scritta «è figlio a me». Diego era il taumaturgo, come San Gennaro, inviato in una città che crede ai miracoli. Diego li faceva stando nel presente, nella realtà. In quegli anni la gente si ricostruiva una speranza: dopo il colera degli anni Settanta e poi il terremoto, avevano di se stessi un’immagine di oppressi e sventurati, poi un taumaturgo arriva all’improvviso e cambia le carte in tavola sul piano dello spettacolo. Sembrava dire: «Vengo a guarire e sono figlio a San Gennaro, batto la Juve e vi faccio vincere scudetto e Uefa», fino a farsi inghiottire da Napoli.

Cosa ti ricordi della festa del primo scudetto?
Ero nella calca, vennero amici da fuori. Spesso venivano da fuori a vederlo giocare perché era tutt’uno con il pubblico, Maradona era il catalizzatore degli 80mila del San Paolo e i tifosi erano il suo cuore battente. La festa è stata un impazzimento, la città ribolliva. Pino Daniele, Massimo Troisi e Maradona sono i tre grandi emblemi di Napoli, tutti e tre morti di cuore. Con Napoli devi avere un legame di cuore.