Ubu re (e il suo inventore ovviamente, Alfred Jarry) è davvero un padre di tutto il teatro moderno. Dal debutto a Parigi, 1896, ha terremotato e influenzato tutto il 900 e le sue avanguardie, con i suoi sogni di potenza, le sue debolezze e la forza erculea delle sue sbruffonate. Insomma è davvero un testo «sacro» (dietro la sua apparente «blasfemia»),anche oggi che pure la realtà ha superato tutto quello che lui aveva potuto immaginare: congiure, ambizioni, colpi di stato, spartizioni di regni e invenzione di geografie immaginarie, oggi informazioni presenti in ogni notiziario, come la sua conquista del trono dello zar che quasi prefigura la successione di Eltsin a Gorbaciov, o le spartizioni della Polonia che anticipano certe scissioni ucraine, per fare solo due esempi.

Ma nonostante questo, Ubu resta sempre un re, del nostro immaginario e di tutti i nostri rapporti. Fa piacere quindi rivederlo tornare, sulla platea dell’Argentina (fino a venerdì 30) ancora coperta da una distesa di sabbia, terreno infido per quelle ambizioni, quegli spropositi, quelle fisiologiche «delusioni». Perché Fabio Cherstich ha associato alla sua regia un artista visivo immaginifico e sicuramente «patafisico» secondo le più scatenate teorie di Jarry (e per la nuova traduzione anche Tommaso Capodanno) con l’effetto dirompente di una visione «pazzesca» che ci parla molto dei valori della nostra normalità.

Quell’arenile sdirupato ospita invenzioni prodigiose, dalla baguette gigante da brandire come arma, al tabernacolo multiplo completo di piviale a mascherare la piccolezza dello zar (l’incisivo Marco Cavalcoli). La presenza di due attori napoletani, Massimo Andrei e Gea Martire, come Ubu re e Madre Ubu, permette una forte inclinazione verso non tanto sotterranei recessi partenopei, popolati di malamente. Uno spettacolo che diverte, senza smettere di inquietare.