Imprigionati, stremati, torturati nelle carceri del regime fascista. Le memorie partigiane costituiscono un affresco tragico della vita in galera. «Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto», scriveva Piero Calamandrei nel 1949. «A pensarci bene, credo che, per quanto si voglia trasformare e perfezionare il carcere, non lo si può modificare in modo sostanziale», gli replicava Altiero Spinelli, che scontò ben 10 anni nelle carceri di Lucca, Viterbo e Civitavecchia. La pena è afflizione. La galera non ha nessun legame con la rieducazione.
Sono fermamente convinto dell’inutilità del carcere, come è organizzato attualmente. Non corregge il colpevole, ma lo avvilisce e a lungo andare lo stronca fisicamente, oltre che moralmente», scriveva Michele Giua, chimico, appartenente a Giustizia e Libertà, condannato a 15 anni di carcere, di cui ne espiò oltre la metà. Dissidenti e partigiani hanno vissuto in carcere a fianco ai detenuti comuni, mai guardandoli dall’alto verso il basso.
«Già, la galera è fatta per i cristiani ma troppe volte questi ci stanno alla maniera delle bestie», affermava Giancarlo Pajetta, che ha trascorso 12 anni e 6 mesi nelle carceri per minorenni di Torino, Roma e Forlì e in quelle per adulti di Bologna, Roma, Civitavecchia e Sulmona. Un vero esperto di galere italiane. «La galera è galera», è la tipica espressione auto-assolutoria di chi interpreta l’istituzione penitenziaria con un cinismo intollerabile. Quello stesso cinismo che Vittorio Foa, condannato nel 1936 a 15 anni di reclusione e liberato nel 1943, riassunse nel descrivere il direttore del carcere di Civitavecchia: «Era una gelida canaglia».
Secondo Lucio Lombardo Radice, matematico che scontò circa due anni di prigione tra il 1940 e il 1942: «La deformazione carceraria arriva, necessariamente, fino all’assurdo, nell’agente di custodia». Il carcere, nella sua innaturale essenza dolorosa, è più forte dell’umanità dei custodi. «La Custodia non tollera l’allegrezza, specialmente collettiva, dei condannati. I detenuti li si vorrebbe rassegnati e tristi», scriveva Francesco Fancello, tra i fondatori del Partito sardo d’azione, che scontò 5 anni nelle carceri di Viterbo, Civitavecchia e Roma.
Fortunatamente, nelle carceri c’è stato un processo di democratizzazione che ha reso molti direttori e poliziotti capaci di resistere a chi chiedeva loro di far marcire i detenuti in galera. La vita dei custoditi è nelle mani dei loro custodi, e da questi dipende il loro destino. «Mi accompagnarono fino a Foggia un appuntato e un carabiniere… Cominciammo male fino dal primo momento; mi misero le manette così strette che mi fecero subito male. Io tacqui sopportando il dolore iniziale ben deciso a sopportare in silenzio: in nessun caso e per nessuna ragione avrei domandato di allentarmele. Dovevo risparmiare quell’umiliazione». così Giulio Turchi, comunista sovversivo, scrisse in un meraviglioso diario d’amore alla sua moglie Emma, dopo dieci anni di carcere fascista, mentre due guardie lo stavano accompagnando al confino.
La repressione fascista era un mix di violenze, abusi, segregazione, tortura. Alcuni resistevano alle torture, altri no. Così Adele Bei, sette anni e mezzo di carcere, più due e mezzo di confino: «I continui interrogatori, le botte, gli strilli, gli insulti che durarono dieci giorni nei sotterranei della Questura di Roma, a nulla valsero. A verbale fu trascritto “La sottoscritta non intende dare spiegazioni sul suo operato”». Luciano Bolis fu torturato per lunghi quindici giorni a Genova nel 1945 nelle carceri fasciste. La tortura tornerà tragicamente a Genova nel luglio del 2001.
«Come convenuto, il capitano “Pietrino” Loretelli diede però l’ordine agli artificieri» e così saltò il ponte della Badia per rendere difficile il transito ai tedeschi lungo la Sassoferrato-Scheggia. Sono state vite lunghe, quelle partigiane, come quella di Woner Lisardi, morto sul finire del 2018. Mentre suo padre scappava dal carcere fascista, lui a 19 anni diventò partigiano e così ricordava il suo 25 aprile 1945: «Tutta la piazza, unita in un moto di fraternità solidale e di grato ricordo delle nostre imprese e di tutti i morti che c’erano stati, si trovò a cantare Bella Ciao. Fu uno dei momenti più belli della mia vita». Sarebbe bello se anche dalle prigioni italiane si sentisse oggi cantare Bella Ciao, inno della libertà e della liberazione.