Sarà più per scaramanzia più che per concreta speranza o cocciuto ottimismo che uno spettatore ogni anno si sogna che il sipario si alzi su uno scenario nuovo e diverso rispetto all’attuale. È che ogni volta, al momento di obbligati bilanci, uno cerca di guardare con sguardo oggettivo allo spettacolo, e al suo mondo, che gli si para davanti, e inevitabilmente le visioni della sua memoria, con tutti gli scontati aggiustamenti e con le contraddizioni che anch’esse contenevano, gli appaiano «grandiose», rispetto alla piattezza dilagante dell’oggi. Ma il teatro, per costituzione, vive ogni sera di un respiro comune che si instauri tra attore e spettatore, tra palcoscenico e poltrona (o anche panca) di platea, per cui la visione diviene (anche questo risaputo) una funzione di ossigenazione, oppure di asfissia. Che, ultima «banalità», può anche essere letale. Non in senso anagrafico, ma certo di gusto e di piacere, oltre che di interesse.

 

 

 

Questi che son  pensieri di rito e d’astrazione, quest’anno hanno però implicazioni più minacciose e sinistre. Mai come questa volta l’osmosi tra il teatro e la sua sostanza antropologica è così drammaticamente esplicita, quasi mortale. La confusione della politica e la durezza della vita materiale, insomma il risultato di questa lunga crisi sociale ed economica che dura ormai da un decennio, si proiettano sulle scene senza mediazioni, e senza troppa visionaria reazione. Il complicato decreto Franceschini, tanto algebrico e contraddittorio, non ha portato quell’oculato uso delle risorse che prometteva, ma ha solo accentuato la fatica di una sopravvivenza.

 

 

 

 

 

Forse bisognerebbe partire da capo, come nel dopoguerra del ’45. Fissare dei principi e delle funzioni che giustifichino il contributo pubblico al teatro, i motivi veri e necessari perché la comunità garantisca una autonoma ricerca artistica, che comprenda la ricerca di nuovi linguaggi e un seria conoscenza della tradizione. Al di fuori di questo, in tempi di risorse sempre più limitate e di debito in aumento (oltre che male amministrato), non ha più senso il finanziamento pubblico a pioggia al mero intrattenimento, che sarebbe in grado di sopravvivere tranquillamente con le sue sole forze, il suo sbigliettamento e gli sponsor privati che sicuramente sarebbe in grado di trovarsi. Per non parlare dello scimmiottamento televisivo dei grandi nomi che dal vivo son perfino imbarazzanti, anche se giornali e tv ne parlano (quelle poche volte che di teatro si occupano) come fossero la Comédie Française de noantri. Compresi i grandi giornali «d’opinione» e le reti tematiche pubbliche.

 

 

 

La burocrazia legata alla macchina clientelare politichese resta per ora l’unico meccanismo di potere sui palcoscenici: la mappa finto «nuova» dei teatri (nazionali o tric che siano) non vede più un solo ente gestito da teatranti. Solo funzionari, che anzi pretendono di gestire anche il nuovo che si intravede, concedendo una serata a un gruppo che fatica da anni. È stato già detto in questi anni che invece di misurarlo in «alzate di sipario», il teatro andrebbe restituito ai teatranti, ovvero a chi lo pratica e lo sa fare. Sembra una pura mozione ideale, resta una concretissima esigenza. Tra governi fotocopia e soccorsi bancari, è probabile che ci si potrebbe ritrovare tra un anno a chiedere le stesse cose. Ma non è detto.

 

 

Essendo il teatro fatto di corpi, cuore e intelligenza, la sua deperibilità è molto facile, come si vede già oggi al momento di scegliere cosa vedere. La classe politica italiana, per tradizione e compiacimento strafalciona e arraffona, è capace di commemorare «commossa» i roghi dei libri di triste memoria, ma di affondare senza problemi una parte altrettanto fondamentale della cultura e dell’arte avuta in dote.