Non sorprende constatare come sia il mondo del circo ad attrarre i pittori, i poeti, i musicisti, con crescente interesse, dagli anni Ottanta dell’Ottocento almeno, fino alla Grande Guerra. Un trentennio nel quale l’intelligenza europea indaga la grande trasformazione della società e ne interroga i drammatici squilibri come i sorprendenti e progressivi risultati di crescita e di benessere.

E di questo diffondersi di modi e forme nuove nel costume, nei comportamenti quotidiani, in un dissolversi e mutare costante e inarrestabile di convenzioni e di rituali di vita antichi, l’intelligenza europea cerca di intendere quanto oscuramente, dal profondo di quella società, non stia forse per rovesciarla.

Si affermano e prendono campo tra le metropoli in crescita e le campagne, nelle fabbriche e nelle periferie, rapporti di lavoro e sociali inediti. Essi fanno avvertire alcunché non ancora compiutamente emerso, ma, certo, latore di radicali cambiamenti, prossimi e inevitabili. Sono trasformazioni, per ora, solo presentite, annunciate per indizi certi, ingenti e irreversibili delle quali avverti l’imminenza e tali da indurre, nell’attesa, disagio, inquietudine, angoscia.

Stati d’animo liminari, oscillanti in precario equilibrio su gli orli che delimitano incerte consapevolezze. La sensazione che costrutti culturali ereditati non si mostrano più in grado, alla prova, di fornire certezze adeguate ai tempi. E dunque, nell’intreccio dei sentimenti come nelle forme dell’interlocuzione che li manifesta, ritrovarsi innanzi modi e abitudini senza poterne distinguere, con sicurezza e alla prima, le motivazioni autentiche e nuove dagli atteggiamenti residuali ed epigonici.

Una dimensione che pare estendersi nella società come un velo di ipocrisia e cioè, nel rispetto del significato del termine antico, la simulazione che maschera le verità più crude in una sorta di recitazione convenuta, dove il non dicibile è alluso secondo un codice teatrale. Una latitudine emotiva tra vero e artificiale che il circo aveva fatto propria.

Le figurazioni del circo, quelle apparizioni fantastiche sotto un cielo di stoffa che rinvia le luci della luminaria a render magico il cerchio della pista. Prodezze volanti; equilibri di corpi, vigorosi tanto da vincere le leggi di gravità; allusioni a nudità solo intraviste nella fascia aderente del corpetto o della calza d’una cavallerizza danzante sul normanno ammaestrato.

Un mondo insomma che la sua perfezione abbigliata di meraviglia presenta come spettacolo e ti delizia dell’artificio nel brivido della sua verità effimera, pericolosa. In ogni prodezza, il successo del difficile esercizio può capovolgersi all’improvviso in dramma e rivelare realtà crude, condizioni spietate vissute sotto l’orpello delle stelle di stagnola e delle lune di carta.

Il circo, lo spettacolo che arriva da lontane terre di tigri, di foche e di elefanti segnate in nessun atlante, dove la rappresentazione d’un mondo fantastico si ottiene a costo d’un regime di vita dura e agra, nel serale repentaglio dei trapezisti; nella fatica d’ogni ora degli acrobati agli esercizi del triplo salto mortale; nella ripetizione estenuante, ogni stagione invariata, dei lazzi e dei salti dei pagliacci.

Una perfetta sintesi di questo universo circense che veniva privilegiato e quasi elaborato in una attraente metafora entro la quale si poteva decifrare l’inquietudine dell’epoca, dobbiamo a Cesare Pascarella (1858-1940) che lo fissa nelle forme della poesia. Il sonetto Li pajacci, che di seguito trascrivo, apparve nell’agosto del 1881 su «La Cometa», strenna della rivista romana «Capitan Fracassa».

«Si me ce so’ trovata, sor Ghetano?/Quanno vennero giù stavo lì sotto./Faceveno er trapeso americano:/Quanno quello più basso e traccaniotto,//Facenno er mulinello, piano piano,/Se mésse sur trapeso a bocca sotto,/Areggenno er compagno co’ le mano./Mentre stamio a guardà’, tutt’in un botto//Se rompe er filo de la canoffiena, /Punfe! Cascorno giù come du’ stracci./Che scena, sor Gaetano mio, che scena!//Li portorno via morti, poveracci!/Sur sangue ce buttorno un po’ de rena,/E poi vennero fôra li pajacci».