C’era poco da insistere, a Milano io e l’Atala ci sentivamo due orfane. Quando sei abituato a pedalare per strade dove i padroni sono i ciclisti, posti come Milano producono frustrazioni pesanti. Credo sia anche per questo che lì, soprattutto allora, trent’anni fa, quasi nessuno pensava di usare la bicicletta.
Ciò mi sembrò stranissimo perché se c’è una città facile da percorrere con una due ruote, in teoria, è proprio Milano che non ha salite né discese, pochissimi ponti e le strade tutte in piano. I ciclisti milanesi però avevano, e in parte ancora hanno, alcuni problemi enormi: il traffico feroce delle auto, i gas di scarico, la gente che quando parcheggia apre la portiera senza guardare chi arriva, il pavet che quando piove si trasforma in una pista di ghiaccio, le rotaie dei tram, la scarsità di piste ciclabili e la totale mancanza di parcheggi per bici.

 

 

In confronto a Parma, la mia città natale, i milanesi in bicicletta erano dei dilettanti allo sbaraglio. A Parma, ma anche in tutte le città dell’Emilia Romagna, sono gli automobilisti a doversi destreggiare fra il via vai delle bici. A Parma trovi ciclisti di tutti i tipi: anziani, signore eleganti, bambini, ragazzi e ragazze. A Parma si usa la bici per fare qualunque cosa richieda uno spostamento: portare pacchi e pacchetti, fare la spesa, prendere l’aperitivo, andare a lavorare, vedere gli amici, bighellonare. A Parma la bicicletta è anche uno strumento di seduzione. Una delle scene più eloquenti in tal senso l’ho vista sul ponte Giuseppe Verdi, quello che collega il parco Ducale alla Pilotta e passa sopra il torrente La Parma. È un ponte non largo dove le auto possono infilarsi a senso unico da due strade che disegnano altrettante curve a gomito. I ciclisti lo percorrono anche contromano o sul marciapiede perché è l’accesso più diretto verso i giardini. Quel giorno, era estate, una giovane donna abbronzatissima lo attraversava in bicicletta in senso contrario alle auto. Indossava un tubino di pizzo di sangallo giallo e, per poter pedalare con agio, aveva tirato la gonna su su, fino alle mutande. Sapeva, la malandrina, che se indossi un abito così per pedalare, quando muovi le gambe su e giù mostri a chi ti sta di fronte tutto l’armamentario dell’intimità: cosce, interno cosce, slip e compagnia cantante. Lei pedalava con lentezza, gli automobilisti andarono in tilt. Si fermarono tutti per lasciarla passare e guardarla, provocando un ingorgo che si sbloccò solo quando lei finì il suo percorso ed entrò nel parco. Ecco, a Milano una scena così non l’ho mai vista. A Milano le cicliste pensano all’efficienza, indossano gonne comode o pantaloni, scarpe basse o da ginnastica, usano la bicicletta come mezzo e basta, ragionano in termini di utilità. Non sanno cosa si perdono.

 

 

Ma torniamo alla mia Atala. La tradii, ebbene sì, perché incontrai una bicicletta più giovane e bella di lei, la bicicletta che non avevo mai avuto, quella dei sogni. Abitavo vicino a via Solari e, costeggiando il caseggiato del primo quartiere operaio Umanitaria, un giorno mi accorsi che c’era un meccanico di biciclette. Era un negozietto male illuminato e con l’insegna poco leggibile. In vetrina aveva appiccicato un ritaglio di giornale ingiallito che a malapena lasciava intravvedere l’interno. Un giorno entrai per far riparare qualcosa alla Atala. C’erano due o tre anziani seduti a chiacchierare vicino a due banchi L’odore di metallo era pungente, la pulizia lasciava a desiderare, il disordine imperava. C’erano pezzi di bicicletta e strumenti di lavoro ovunque. Catene, manubri, ruote, dinamo, cambi e pistoni erano mescolati a chiavi inglesi, a brugola, a tubo e a testa esagonale, e poi cacciaviti, pinze, tronchesi, cacciagomme, smagliacatena, tiraraggi, martelli, metri, spazzole. In mezzo a tutto questo ambaradàn si ergeva un signore alto, magro e con lo sguardo burbero. Era il meccanico. Mi guardò severo, osservò l’Atala, sospirò e la riparò all’istante. Io intanto stavo in piedi e mi guardavo attorno. Tutti si erano zittiti. Mi sentivo di troppo, capivo di aver disturbato un consesso privato. Alzai lo sguardo e vidi appese in alto alcune biciclette fiammanti e bellissime. «Le ha assemblate lei?» chiesi al signore burbero. «Sì», fu la laconica risposta. Su una parete c’erano altri ritagli di giornale ingialliti. Mi avvicinai per leggerli. Parlavano di un ciclista che aveva vinto tre tappe al giro d’Italia fra il 1945 e il ’52, una Zurigo-Losanna e che era stato gregario di Bartali e Coppi. Si chiamava Renzo Zanazzi. Osservai la foto che lo ritraeva e notai che assomigliava al meccanico burbero. «Lei è questo signore? È lei Renzo Zanazzi?» gli domandai. «Sì», bofonchiò lui. Ero capitata in un santuario del ciclismo e avevo accanto uno dei suoi protagonisti.
Avevo adocchiato una delle biciclette appese. Era l’unica da donna, nera, cambio Shimano a nove velocità, telaio in alluminio, leggera, elegante e sulla canna aveva scritto Zanazzi. «Quella quanto costa?» domandai. «È per lei?» disse lui. «Sì». «E cosa ci fa?» aggiunse Zanazzi. «La userei in città, ma anche per fare dei giri fuori Milano. Quanto costa?». «Tanto, cinquecentomila lire». Era circa un terzo di quello che guadagnavo e non potevo ancora permettermela, ma la volevo. Oltre al prezzo c’era però un altro ostacolo da superare: la ritrosia di Zanazzi. Per risolvere il primo problema bastava risparmiare, per superare il secondo era necessario conquistare l’ex campione.

 

 

Gli feci la corte per sei mesi. Continuavo a trovare scuse per andare a trovarlo con l’Atala. Una volta erano i freni, un’altra la dinamo, un’altra ancora il tappino delle gomme e intanto controllavo che la «mia» Zanazzi fosse sempre lì, appesa al soffitto. Finché un giorno, racimolati i soldi, presi coraggio e gli chiesi se me la vendeva. Non rispose. La tirò giù e mi disse: «La provi. Non si compra una bicicletta senza provarla». Feci il giro dell’isolato con il cuore che batteva. Mi sembrava di volare. Tornai da lui raggiante e gli dissi: «La prendo». Solo dopo averla pagata gli feci la richiesta indecente. «Senta, signor Zanazzi, ho un bambino di pochi mesi. Me lo attaccherebbe un seggiolino davanti?». Per poco non svenne. «Ma è quasi una bicicletta da corsa. Non è adatta a portare bambini. Il seggiolino le rovina la pedalata».  «Lo so. Ma senza quello dove metto mio figlio?».  «Dia qua», disse Zanazzi bofonchiando e andò a cercare il sellino più leggero ed elegante che aveva. Quando raccontai tutto ciò a mia madre, lei mi disse che non avevo cervello e aggiunse:  «Ma non ti serviva di più un’automobile? Con quei soldi ne trovavi una di terza mano».  «Dell’auto posso fare a meno, della bici no», le risposi.

 

 

Renzo Zanazzi non c’è più dal 2014, ma la sua bicicletta mi accompagna da allora, e da anni non ha più il seggiolino davanti. Quando voglio usarla per puro piacere, esco la domenica molto presto e scelgo strade larghe o le Alzaie dei navigli perché non sopporto che fra me lei si interpongano strettoie, stop, automobilisti e semafori. Quando voglio fare la parmigiana a Milano indosso i tacchi alti, gonne larghe o con lo spacco e pedalo. Ogni volta che l’ho fatto ho cuccato. Una volta un motociclista mi ha affiancato e mi ha detto: «Complimenti per le gambe, signora». Un’altra un automobilista mi ha accostato in piazza Repubblica e ha esclamato: «Ahpperò». Un’altra ancora un vecchio signore un po’ alticcio si è fermato sul marciapiede e ha cominciato a cantare: «Ma dove vaaai, bellezza in biciclettaaaa…».
Care ragazze e meno ragazze, se volete che le auto milanesi si fermino al vostro passaggio e non vi stirino, mettetevi i tacchi, una gonna che vola e pedalate. Fate come la malandrina di Parma e vedrete come cambia l’umore della città. Grazie di cuore, signor Zanazzi.
4.fine