«Alla fine, la vittoria dei 5 Stelle a Roma potrebbe non essere un male: si dimostrerebbe che non sono in grado di governare e alle politiche non avrebbero più nessuna possibilità»: questo confessava in separata sede Matteo Renzi nella notte tra giovedì e venerdì, quando ancora il pallottoliere restituiva cifre ballerine e non era ancora certo che l’inquilino di palazzo Chigi sarebbe riuscito a sloggiare quello del Campidoglio senza l’aiuto delle opposizioni temibili, quella azzurra e quella pentastellata.

Un po’ è un ragionamento sincero, e non del tutto infondato: tant’è vero che anche nell’Movimento 5 Stelle ci sono dubbi in quantità sull’opportunità di accollarsi la rognosissima gatta romana prima di elezioni politiche che non sono dietro l’angolo. Ma un po’ è anche la versione in politichese italico della celebre favola della volpe e l’uva.

Per giocare a Roma con qualche speranza di vincere la partita, bisognerebbe disporre di quello che al momento appare come il solo candidato in campo, Alfio Marchini, per i romani «Arfio». Solo che «Arfio» pare invece pendere a destra. «Quello – commenta un dirigente azzurro – ha fatto una lista non civica, ma cinica: era partito guardando a sinistra ma siccome adesso pare che a Roma la sinistra annaspi..».

Ufficialmente il candidatissimo non ha ancora scelto. Le dimissioni dei suoi due consiglieri sono state determinanti per affossare il recalcitrante Ignazio, ma ciò non significa affatto siglare l’alleanza con Matteo Renzi, trattandosi di una mera convergenza di interessi. Silvio Berlusconi, al contrario, pare convinto di avere praticamente chiuso la partita conquistando il papabile. Lo diceva appena tra le righe lui stesso, conversando con gli invitati alla festa di Nunzia Di Girolamo, giovedì sera. A chi gli chiedeva della possibile candidatura di Giorgia Meloni per il Campidoglio rispondeva infatti sicurissimo: «Giorgia è bravissima e, come Salvini, raccoglie un consenso personale che va molto al di là di quello del suo partito. Ma a Roma un candidato che pesca nell’elettorato moderato c’è già, è Alfio Marchini. Schierargli contro un candidato della stessa area significherebbe ripetere un errore gravissimo che è già stato fatto. Poi, penso che la Meloni sia più interessata alla Regione Lazio».

Sembra una riflessione in libertà, probabilmente è invece una notizia. Al momento e con il Campidoglio per traguardo, la corsa della «bravissima» Meloni sarebbe ostacolata dall’ingombrante memoria della giunta Alemanno con annessa Mafia Capitale. Tra qualche anno e con la Regione per obiettivo, non ci sarà problema.
Ecco perché al Nazareno la candidatura che sta prendendo rapidamente piede è quella della ministra della Salute. Beatrice Lorenzin piace un po’ a tutti, o almeno di questo sono convinti nella sola cerchia che conta, quella del premier. Moderata e di centrodestra, ma con discrezione, non troppo, una insomma che può essere votata anche dagli elettori di centrosinistra senza doversi turare il naso fino al soffocamento. Probabilmente non vincerà, questo Renzi lo sa bene: ma in fondo non è targata Pd e la probabile sconfitta brucerà dunque molto meno.

Il segnale politico sarà comunque chiaro: mai più coalizioni sbilanciate a sinistra, in concreto con Sel. Il Pd dell’era Renzi è un partito di centrodestra in tutto tranne che nel nome, ed è bene che tutti lo sappiano. La ministra Lorenzin, se sarà davvero lei la candidata del Pd, può non vincere, ma deve piazzarsi tanto bene da dimostrare che la svolta funziona, tanto più che a Milano regnerà la stessa logica, con il candidato”civico” Giuseppe Sala, e lì la vittoria è invece a portata di mano. Berlusconi stesso sa di doversi misurare con un rivale che di fatto fa parte della sua stessa area politico-culturale, e non lo nasconde: «E’ vero, Renzi dice cose di centrodestra. Però non mi spaventa, perché i suoi sono solo titoli e codici, mentre nei contenuti non c’è niente».

Anche per il centrodestra il test romano potrebbe rivelarsi l’avvio di una sterzata politica a tutto campo. Perché tra gli azzurri non mancano quelli che, come Augusto Minzolini, ripetono al capo che per tornare determinante deve essere il collante capace di tenere insieme i “civici” di un certo peso, come Diego Della Valle e magari persino Corrado Passera. Cominciando proprio da «Arfio».