Alla prova dei fatti il segnale è pessimo. La stagione degli abbracci post-Brexit è durata pochi giorni. Quando dalle dichiarazioni altisonanti ma di solito vuote si è passati alla concretezza delle cifre e delle norme rigide, tra Italia e Germania, tra il giovane premier italiano Matteo Renzi e la sua alta protettrice tedesca Angela Merkel, sono riemerse le solite eterne tensioni.

Si parla di banche, di bail-in, di una possibile deroga di sei mesi per intervenire con denaro pubblico sugli istituti di credito in sofferenza e garantire così quel che Renzi continua a promettere dalla notte del referendum britannico: «Siamo pronti a fare tutto il necessario, se servirà, per garantire la sicurezza dei risparmiatori». Angela Merkel non concorda. Se quel «tutto» comporta deroghe al dogma rigorista spiacente ma non se ne parla.

Prima di lei vanno in avanscoperta le solite «fonti anonime». Fanno sapere che il governo tedesco non è affatto d’accordo con l’ipotesi di sborsare denaro pubblico per evitare perdite di azionisti e creditori. Poi esce allo scoperto la cancelliera, e aggiunge il carico pesante. Soprattutto quando Merkel vuole sottolineare che «è stata concessa una certa flessibilità ad alcuni Paesi per favorire la crescita». Si parla di banche, è vero, e già di per sé è un settore chiave. Ma il messaggio suona più complessivo: flessibilità di bilancio sì, ma fino a un certo punto.

Renzi mastica amaro e lo si vede chiaramente quando in conferenza stampa lancia frecciate una dopo l’altra contro la Germania, severa con tutti tranne che con se stessa. Il premier italiano ostenta la consueta spavalderia, ma il messaggio tedesco tutto è fuorché tranquillizzante. Da giorni infatti l’inquilino di palazzo Chigi ripete che la Brexit può essere l’occasione di un nuovo inizio, di una svolta radicale, preziosa per l’Europa ma fondamentale anche per le sue personali sorti. L’incognita è quanto una Germania che dovrà a sua volta fare i conti tra non molto con gli elettori sia disposta a cambiare strada nei fatti oltre che nelle belle parole.

Il segnale di ieri tuttavia non è definitivo. Margini per quella flessibilità massima che consentirebbe a Matteo Renzi il taglio delle tasse con un intervento drastico sull’Irpef ce ne sono ancora. Ma di certo da ieri palazzo Chigi ci spera un po’ di meno.

Inoltre resta, pur se pubblicamente minimizzata, la paura che l’effetto Brexit si ripercuota pesantemente su una crescita già flaccida ovunque e in Italia pressoché inesistente. Il presidente della Bce Mario Draghi, due giorni fa, ha ipotizzato l’eventualità di un calo della crescita pari allo 0,5% in tre anni. Per l’Italia e per il suo presidente del consiglio sarebbe un guaio. «L’ipotesi che le cose vadano un po’ peggio di quel che si immaginava sta nei fatti», ammette lo stesso Renzi, che rimane tuttavia ottimista: «Un nostro studio sottolinea che il nostro interscambio con il Regno Unito non sarà il primo a risentirne. Certo potrebbe esserci un effetto limitato sull’economia reale. Se rallentano tutti, rallenta anche l’Italia». Traduzione: dita ben incrociate e speriamo bene.