Martedì Renzi incontrerà i sindacati. Sul tavolo la punta emergente del Jobs Act, cioè quel che resta dell’articolo18. Di tutto il resto sarebbe difficile parlare, dal momento che nessuno, neppure Renzi, sa di cosa si tratterà. La legge è una delega in bianco al governo: per sapere cosa dice bisognerà aspettare i decreti attuativi, tra sei mesi buoni. Anche il poco che è già annunciato in realtà è tutt’altro che certo. Servono le coperture, ma di quelle si parlerà nella legge di stabilità. Resta l’art. 18: la bandiera che però dovrebbe convincere l’Europa ad allentare il rigore.

Politicamente l’incontro, sia pur accompagnato da un «anche i sindacati devono cambiare» (Matteo dixit, reduce da contestazione con tanto di uova a Ferrara), conferma che il giovanotto a fare la parte del duro a tutti i costi stavolta non ci tiene. Tanto che il responsabile Economia del Pd, Taddei, se ne esce a sorpresa affermando che «l’articolo 18 non verrà abolito ma aggiornato, solo per i nuovi assunti». Se si aggiunge che le teste d’uovo di palazzo Chigi stanno lavorando sull’ipotesi di un super indennizzo per i licenziamenti disciplinari, diventa obbligatorio concludere che neppure sul famigerato articoletto il governo ha ancora le idee davvero chiare. Per forza: dover mediare con esigenze opposte, quelle dell’Ncd da un lato, quelle della minoranza Pd e del sindacato dall’altro, non è un gioco.

Al contrario, l’impresa è tanto ardua che alla fine Renzi dovrà probabilmente rassegnarsi a mettere la fiducia. Fossero in campo solo i dissidenti della sua sponda lo eviterebbe. Ma con Sacconi che della faccenda ha fatto un caso quasi personale e che oltretutto è relatore della legge, con l’Ncd che ogni giorno di più si sente strangolato dalla tenaglia Pd-Fi e che quindi ha bisogno come dell’ossigeno di uscire dalla vicenda a testa alta, difficilmente potrà evitare la scorciatoia del voto di fiducia. Non è detta l’ultima, ma quella che tre giorni fa sembrava un’ipotesi remota è diventata più che probabile e nell’Ncd la danno anzi per certa. La minoranza Pd strepita. La fiducia sarebbe «la soluzione peggiore sotto tutti i punti di vista» per tre senatori (Fornaro, Gatti e Guerra), «una scelta molto grave» per Damiano. Per Renzi rischia però di essere una scelta senza alternative.

A conti fatti, l’unica cosa certa è che la legge sarà approvata, in un modo o nell’altro, con questo o con quel contenuto, in largo anticipo sulla scadenza di fine ottobre, quando Renzi dovrà sbandierarla di fronte all’Europa. In fondo, il contenuto importa davvero fino a un certo punto. Nessuno a Bruxelles pensa che sia quella la riforma in grado di incidere sulla realtà italiana. E l’intervento che i duri europei vorrebbero prima di tutti, il taglio della spesa pubblica, Renzi proprio non può farlo. La formula era già discutibile quando si trattava di fronteggiare la recessione. E’ impraticabile ora che l’Italia si trova alle prese con il più feroce tra i mostri in circolazione nella giungla macro-economica, quella somma di recessione e deflazione che va sotto il nome di stagflazione. Dunque l’Europa dovrà decidere se accontentarsi della “prova di buona volontà” che Renzi offre (a spese dei lavoratori) oppure se puntare i piedi e aprire una procedura d’infrazione per lo slittamento del pareggio di bilancio al 2017. Le altre cifre contano poco: è quello ormai il solo parametro che conti a Bruxelles, Berlino e capitali limitrofe.

La decisione, peraltro, dipenderà dall’esito della guerra aperta in corso in Europa, certo non dai contenuti del Jobs Act. La situazione, tra i Paesi del nord Europa e quelli latini ricorda per certi versi – segnala qualche esperto – la crisi di Cuba del ’62: uno dei due blocchi deve cedere, in caso contrario la deflagrazione spazzerà via l’euro. Ma chi sarà a mollare la presa è tutt’altro che certo, anche se, da questo punto di vista, la congiuntura internazionale, con il Califfato all’offensiva e la crisi ucraina dietro l’angolo di casa, aiuta i Paesi “ribelli”. Mettere a rischio l’Europa in un momento simile sarebbe un azzardo esagerato persino per i dogmatici santoni del rigore.

Solo che, anche nel fronte dei paesi latini, l’Italia ha i suoi guai. Spagna e Portogallo, che hanno subito il commissariamento, non si scaldano troppo di fronte al rischio che l’Italia subisca la stessa sorte, e una parte sostanziosa dei poteri economico-finanziari europei tira proprio in quella direzione. Si spiega così la complessità della situazione in cui si trova Renzi: politicamente fortissimo, come nessuno prima di lui, e allo stesso tempo fragilissimo, come il giovedì nero della Borsa ha dimostrato. Più che dalla bravura, la sua sorte dipenderà nei prossimi mesi dalla fortuna.