Un’ora di discorso alla Factory 365 di Roma, la Leopoldina dei giovani dem, a un anno esatto dalle primarie dell’Immacolata che gli consegnarono a furor di popolo (democratico) la segreteria. Matteo Renzi, maglione rosso al posto della camicia bianca di ordinanza («Succede a stare troppo con Orfini, ma vedrete che al prossimo congresso ci divideremo”», scherza), fa anche un lapsus notevole: dice «Buon compleanno Pd», come se il suo partito fosse nato quando è arrivato lui, e non sei anni prima. Il premier-segretario parla a lungo ma riserva alla vicenda romana poche battute in coda. Preoccupate. «La politica o è grande ideale, passione e bellezza o è miseria», «non lasceremo la Capitale ai ladri. Teniamo pulito perché Roma è troppo grande e bella per lasciarla a gentaccia là fuori». Ma soprattutto rivolge ai giudici un appello quasi accorato: «A me lo sdegno delle prime 48 ore non basta. Ogni giorno chiederemo che si vada rapidamente ai processi, che si facciano le sentenze, che chi è colpevole paghi fino all’ultimo centesimo e all’ultimo giorno, perché non è possibile che in Italia non paghi nessuno». Intanto «chi prende una tangente con noi ha chiuso». Già, ma chi ha preso davvero una tangente? Le indaginisono ancora aperte. E anche quando saranno chiuse la domanda rischia di restare aperta per anni.

Ed è un grosso guaio per l’immagine del premier. Renzi ha affidato il dossier Roma a Matteo Orfini, il presidente del partito nel quale ripone la massima fiducia nonostante le divergenze di linea (ieri, per la cronaca, Orfini è stato applauditissimo dai Gd, del resto guidati dal giovane turco Andrea Baldini, anche quando ha ricordato la sua contrarietà al «partito della nazione anche nella declinazione che gli ha dato Reichlin» e quando ha criticato l’azione di governo schierandosi contro il decreto Lupi). Orfini ha preso il dossier molto sul serio. Né potrebbe essere diversamente visto la gravità delle accuse che hanno colpito tre amministratori fin qui indagati, il consigliere comunale Mirko Coratti, quello regionale Eugenio Patané e l’assessore Daniele Ozzimo, tutti di osservanza renziana. Ma il lavoro dei magistrati non è ancora concluso e anzi si aspetta una seconda infornata di arresti o almeno di indagati.

Ma non c’è solo – solo si fa per dire – l’inchiesta “Mondo di mezzo2″ a preoccupare il Nazareno. Oscurata dai clamori di Mafia Capitale, in questi giorni va avanti il lavoro dei magistrati su Marco Di Stefano, deputato ex consigliere regionale indagato per corruzione, sospettato di aver ricevuto una maxi-tangente in una brutta storia in cui il suo braccio destri è scomparso, forse ucciso. C’è dell’altro: si è chiusa di recente a Rieti l’inchiesta sulle spese pazze della regione dell’era Polverini. Si attendono i rinvii a giudizio, che potrebbero riguardare anche ex consiglieri Pd, la maggior parte dei quali nel frattempo è stata eletti in parlamento, visto che il presidente Zingaretti aveva messo come condizione della sua corsa per la Pisana il «rinnovamento radicale» del gruppo regionale, che infatti fu ripescato quasi per intero nelle liste dell’allora segretario Bersani. La vicenda delle indagini romane rischia di essere uno stillicidio per mesi, forse per anni.

In attesa dell’onda giudiziaria, come potrà Orfini «fare pulizia» mantenendo però l’assetto garantista del Pd renziano? Orfini annuncia il pugno di ferro: «Saremo durissimi, cercheremo chi ha sbagliato e cercheremo di capire quali sono i circoli veri e quelli finti, sentiremo uno per uno i nostri iscritti per vedere se sono iscritti veri o finti», ha spiegato ieri a margine di Factory 365. «Stabiliremo regole rigide per i bilanci dei circoli, controlleremo a chi sono intestati i contratto d’affitto, riusciremo a stroncare la cancrena correntizia che ha ridotto così il partito di Roma. Faremo una serie di controlli su un partito che in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene. Vogliamo restituirlo a loro e levarlo a chi un questi anni lo ha sequestrato».

Il correntismo spinto nel Pd romano è un dato costitutivo. Gli esperti del Cencelli dem contano un minimo di sette correnti principali, più almeno tre subcorrenti. Un ginepraio in continua scomposizione e ricomposizione di cui è quasi impossibile dare un resoconto aggiornato all’ultimo patto. L’ultima nata è Noidem, area dall’unione di tre sottoaree, quella di Umberto Marroni (già dalemiano), Lorenza Bonaccorsi (capofila dei cosiddetti ‘turborenziani) e del popolare Enrico Gasbarra, di cui fanno parte Daniele Ozzimo e Mirko Coratti (indagati entrambi); al suo battesimo fu chiamato Lorenzo Guerini. Poi c’è l’area Di Stefano (indagato) e Stampete, lettian-renzia; quella dei Giovani turchi, di Tommaso Giuntella e dei consiglieri comunali Gianni Paris o Giulia Tempesta (e dello stesso Orfini, a livello nazionale); l’area vicina al presidente Zingaretti (che però nega vigorosamente di averla); i renziani non nativi come De Luca e Patané (indagato); l’area del sottosegretario Rughetti, Nanni e Grippo; i franceschiniani di Areadem, Melilli e Astorre. Un puzzle che deriva in parte dalla provenienza ma per lo più da patti anche fra diversi, come proprio la neonata Noidem dimostra. «Il Pd in questa città c’è ed è fatto di tante persone per bene», ripete Orfini. Cacciare con ignominia le correnti, dichiararle seppellite con grande spolvero mediatico sarà relativamente facile. Il vero cimento sarebbe smantellare le filiere di piccoli e grandi poteri che irretiscono il lavoro dell’amministrazione. E scommettere che smontate queste il Pd resti ancora in piedi.