Percy Wyndham Lewis nel 1929, foto-ritratto di George C. Beresford

 

Ai tre fratelli Sitwell una certa stravaganza venne trasmessa dal padre, Sir George, che spendeva in castelli e giardini ma si rifiutò di pagare un debito della consorte e la costrinse a subire tre mesi di galera. Costei, Lady Ida, dal canto suo non solo spendeva in maniera compulsiva ma vantando un nonno duca di Beaufort trovava ogni occasione per apostrofare i tre figli in tono seccato ricordando loro che lei era «nata meglio» di loro. I ragazzi crebbero inevitabilmente con una scarsa opinione dei genitori ma con un infallibile senso di superiorità: d’altra parte un bisnonno Beaufort assicurava una goccia, seppure infinitesimale, del sangue dei Plantageneti. Cecil Beaton fu il più magnanimo fra tutti coloro che commentarono l’eccentricità aristocratica di Edith, Osbert e Sacheverell Sitwell, e scrisse in un suo volumetto (Persona grata, del 1954) come i tre fratelli avessero fatto dell’eccentricità una scienza esatta e rispettabile: la prosa di Osbert era artefatta come l’architettura di una cattedrale gelida; Sacheverell era un’imperscrutabile gazza circondata dalle cianfrusaglie ataviche.
Edith, per Beaton, rimase soprattutto l’oggetto di alcuni leggendari ritratti fotografici nei quali non mancava mai di comparire il vero orgoglio della dama, consapevole di non essere bella ma di avere mani formidabili. Quegli scatti raffigurano quasi sempre le dita oberate delle pietre enormi montate su anelli da Michael Gosschalk, un gioielliere londinese di Belgravia, e sono ben pochi i ritratti dipinti della Sitwell in cui quelle appendici affusolate non compaiano bene in vista. Quello di Alvaro Guevara del 1919, quelli di Roger Fry del 1915 e del 1918, quello di Rex Whistler del 1929, in cui l’abito a fiori e la collana d’ambra attutiscono appena una sinistra aura dickensiana da Miss Havisham, che maturerà nello spettrale dipinto di Felix Topolski del 1959, in cui l’artiglio inanellato di una enorme acquamarina è in primo piano. Ma un ritratto senza mani ci fu, e lo fece il miglior nemico della Sitwell, Percy Whyndham Lewis (1882-1957).
Lewis conobbe i Sitwell verso il 1920 e sembrò stabilire un buon rapporto coi tre fratelli riservandosi, come suo solito, qualche commento malevolo alle spalle. Nonostante l’alone da genio ribelle il pittore gradiva l’apprezzamento e gli inviti dell’alta società, ma i tre ragazzi di Renishaw – la casa di campagna della schiatta dei Sitwell, eretta nel Seicento – gli urtarono i nervi, tesi costantemente fra la megalomania e il senso di persecuzione. Fra Lewis e Edith nacque un’inimicizia temperata da modi civili, che non escluse mai la frequentazione e persino qualche garbato apprezzamento reciproco. Fino a che, nel 1923, iniziarono le sedute per il ritratto.
La poetessa aveva allora trentasei anni e Façade, la sua raccolta di poesie iniziata nel 1918, stava per essere messa in scena con le musiche di William Walton: era all’apice del successo letterario e non sopportava critiche. Stando alla storia che lei stessa narrò le sedute nello studio di Lewis durarono dieci lunghissimi mesi, ogni giorno, domeniche escluse, e sembra che fra i due scorresse persino una certa simpatia confortata da dialoghi surreali che stuzzicavano la fantasia della scrittrice. Poi lei smise di colpo. La causa, scrisse a un’amica, era l’infatuazione (schwärmerei fu il termine che usò) del pittore nei suo confronti. Nessuno poté mai stabilire se ciò fosse vero ma il dipinto rimase incompiuto scatenando un astio reciproco che durò per decenni. Il risentimento del pittore non trovò pace, neppure nel 1935, quando riprese in mano la tela e la completò, lasciando senza mani la figura imperscrutabile bardata in verde e giallo: non si sa se per la mancanza del modello o per colpire la sua avversaria in quel che apprezzava di più del proprio corpo.
In un primo momento le cose non andarono molto in là anche perché Lewis era impegnato a mettere per scritto tutto quel che detestava delle confraternite intellettuali del momento, in primis i Sitwell e poi la cerchia di Bloomsbury. The Apes of God, il libro in cui versava tutto il suo veleno, uscì nel 1930. Era una ponderosa novella in cui sotto falso nome, ma perfettamente riconoscibili, figuravano tutti i destinatari del suo rancore. Roger Fry meritava un posto d’onore con il suo fare saccente e i suoi pessimi quadri, Clive Bell lo seguiva come il fido filisteo e i Sitwell, che comparivano sotto il nome di Finnian Shaw, erano i maturi «Peter Pan personali di Dio che a quarant’anni giocano ancora coi castelli di fango». Come ogni roman à clef l’unica cosa che interessò il pubblico di allora fu proprio la clef, e tutta Londra (almeno quella che lesse quelle pesantissime pagine) individuò in quei tre fanciulli invecchiati le sembianze dei Sitwell. I protagonisti reali si sentirono oltraggiati, Virginia Woolf ne fece una malattia, di breve durata ma dolorosa.
L’odio del pittore nei confronti del mondo aveva radici profonde. Fin dagli anni prebellici, in cui era stato il promotore e stella assoluta del movimento vorticista, aveva compilato liste di buoni e cattivi comparse nei due numeri della sua rivista «Blast». Già allora aveva litigato con tutti, soprattutto coi propri clienti più generosi, inclusa Frida Strindberg, ex moglie dello scrittore svedese, che nel 1912 aveva aperto a Heddon Street un locale notturno, The Cave of the Golden Calf, un nome che doveva suggerire sregolatezze bibliche. Durò solo due anni ma le opere di Lewis e di alcuni fra i migliori artisti dell’avanguardia inglese (Gore, Sickert, Epstein e altri) furono ammirate e purtroppo oggi sono appena intuibili da qualche raro bozzetto. Lewis si lamentò del compenso e Frida entrò nella lista dei nemici.
Ma l’odio di Lewis aveva molte sfumature e quello per la Sithwell soffriva di una particolare forma di rispetto. In quanto all’accusa di aver attentato alla illibatezza della scrittrice, ancora molti anni dopo Lewis ribadì che l’aspetto della signora escludeva l’ipotesi: «dall’alto di quel suo lungo naso adunco ti lancia uno sguardo per farti capire che è figlia di un barone». Ma in altre dichiarazioni finì per tradire una specie di bisogno per colei che definì «la mia miglior nemica».
La scrittrice invece non perdonò mai. Scriveva meglio di Lewis e sin dall’uscita di The Apes of God mise mano alla penna con un libello che resta inedito ma i cui passi salienti tornarono molti anni dopo nelle otto lunghe e velenose pagine sul pittore pubblicate nella propria autobiografia. Da vera signora (usò proprio queste parole) ricordò gli incoraggiamenti forniti al pittore da lei e dai fratelli, e poi passò a colpire il punto dolente di lui, giustificandone gli aspetti ridicoli e aggressivi con il fatto di essere un uomo bisognoso di amore e di conforto nella sua solitudine. Lewis aveva per tutta la sua vita sbandierato il principio dell’insensibilità necessaria all’artista moderno, il bisogno della disumanizzazione: come colpirlo meglio che dandogli un’anima, e per di più in pena?
Quel che mancava in quella vendetta postuma (quando l’autobiografia della Sitwell uscì, Lewis era morto da quasi dieci anni e lei da pochi mesi) era un velo misericordioso di umorismo che avrebbe reso meno crudele lo sfoggio di superiorità. A suo modo era stato più brillante lui quando, osservando alcune foto di Edith ormai passati vent’anni dalla data del famigerato ritratto, aveva rimarcato come la vecchia nemica fosse completamente cambiata: «ora sembra un van Eyck».